domenica 19 dicembre 2010

Senza centro di gavità_ di Angelo Nizza


Immigrati che salgono sulle gru nel cantiere della metropolitana in zona San Faustino a Brescia. Altri che si insediano sul tetto della torre-ciminiera di una fabbrica dismessa in via Imbonati a Milano. Per diventare visibili e denunciare di essere stati vittime di imbrogli e raggiri nel losco gioco dei permessi di soggiorno. E, ancora, nuove persone straniere che approdano al largo della costa di Crotone. Non solo sulle ormai passate di moda “carrette del mare”, ma anche su barche di lusso e velieri. Ben dodici sbarchi avvenuti dalla fine di agosto fino a tutto il mese di novembre.
Sono gli ultimi, gli esclusi, gli inetti del ventunesimo secolo. Loro sono quelli che, in così tanto mondo, non riescono a trovare un posto dove risiedere. Il copione è quasi sempre lo stesso: arrivano dal Maghreb oppure dai Balcani e dalle zone del medio oriente in cerca di un’occasione, magari di una casa, di un lavoro e di un amore. Insomma, fuggono da chissà dove e chissà che cosa sperando di trovare spazi e tempi migliori. Alcuni ce la fanno, realizzano il sogno e raggiungono la tanto sospirata integrazione. Ma molti, la maggior parte, cedono e si trasformano in fantasmi, senza nome, ne età, senza niente e nessuno, privi di una vita. Brancolano nel buio, tirano a campare e meglio che vada finiscono con l’infoltire le fila della mala. Questi signori, queste donne e questi bambini mettono in chiaro un problema. Una questione che prima di essere di natura politica, o economica o sociale è squisitamente filosofica. L’immigrato senza fissa dimora, il clandestino, l’apolide, insomma quello che in gergo volgarissimo si chiama “il marocchino” o “il polacco” o “il rumeno”, esibisce il dilemma del disambientamento cui è costretto l’uomo.
 Per nostra natura non nasciamo in un luogo in cui poterci radicare una volta per sempre. Di volta in volta questo ce lo dobbiamo inventare. Oltre a vivere, l’essere umano è chiamato a produrre le condizioni per mandare avanti la propria vita. Se ce la fai, allora bene. Cioè: se riesci a ritagliarti un tuo agio o a incanalarti in un ambiente costruito da altri, allora sei dentro. Sei sistemato, perché è di un sistema che fai parte.
In caso contrario, divieni un disperato fuori da ogni giardino, un declassato, un individuo poco raccomandabile, una persona da cui guardarsi. Eppure il disambientato, è questo il nome corretto, di Bucarest o di Varsavia, pone al mondo intero un argomento profondo, fondamentale tanto quanto la crisi fra le due Coree. Dato un paradigma dominante, ci sarà sempre qualcuno che ne rimane fuori e che, quindi, domanda aiuto perché non trova il suo centro di gravità.

E, infine, l’epoca in cui viviamo oggi, che è quella che sta segnando la fine della società del lavoro, sta mettendo alle porte proprio la nuova generazione dei paesi capitalisti. Essi, vale dire noi, giovani occidentali del 2010 siamo gli instabili, i precari, quelli che, sì c’è il sistema ma scricchiola, tentano troppo spesso invano di trovare una collocazione, anche noi siamo disambientati e, a volte, anche migranti. Anche noi in fuga verso l’estero alla ricerca di qualche cosa che la patria non ci dà.

(da "Fatti al Cubo", giornale indipendente dell'Università della Calabria)

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