sabato 25 dicembre 2010

brevi note sulla ristrutturazione del mercato del lavoro in Italia _ parte II

L’aumento degli incidenti anche mortali sul lavoro e delle malattie professionali sono cronaca di tutti i giorni alle quali ha sicuramente contribuito anche l’abolizione del divieto di subappalto di manodopera.
Gli incidenti e le malattie sul lavoro, infatti, sono causati spesso dalla precarietà delle condizioni di lavoro a cui sono maggiormente esposti i lavoratori “affittati” o dipendenti da ditte subappaltatrici.
Per eliminare tale causa, era stata emanata la legge 1369/60 che vietava queste forme di utilizzo dei lavoratori.
Ora, prima che il pacchetto Treu del 1997 con il lavoro interinale, poi con la legge Biagi del 2003 con il lavoro a somministrazione, tale legge è stata abolita ed è stato liberalizzato l’affitto dei lavoratori.
In questo quadro di precarietà delle condizioni di lavoro si inseriscono anche le norme sulla cessione e affitto di azienda o ramo di essa.
In pratica, le misure sulla tutela del lavoratore dagli infortuni e dalle malattie sono considerate nell’economia e nei bilanci aziendali come “capitale morto”, non produttivo, ed i loro costi incidono negativamente sul prezzo del prodotto o servizio venduto, rendendolo meno competitivo o riducendo il profitto aziendale.
L’abolizione delle norme poste a tutela della salute e della vita dei lavoratori – effettuata, tra l’altro, con il D. lgs. 66/03 e la legge Biagi – sono considerate iniziative per lo sviluppo economico e per la competitività.

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L’introduzione dell’istituto della “mobilità” obbliga i lavoratori ad essere trasferiti, spostati da una sede all’altra come un attrezzo o un macchinario, facilitando, così, l’organizzazione aziendale.

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Si procede verso la privatizzazione della previdenza e dell’assistenza contro gli infortuni.
La “facoltà” ed il silenzio assenso di conferire il TFR ai fondi pensione varata nel 2007 è un primo passo verso l’abolizione della liquidazione e delle pensioni così come già avviata con l’accordo del 23 luglio 2007.
Il motivo della previsione legislativa di destinazione del TFR ai Fondi di previdenza integrativa è stato spiegato con la riduzione dell’assegno pensionistico portato dal 70 al 40 per cento dall’ultima retribuzione. Riduzione motivata con l’innalzamento della durata di vita delle persone e con il crescente aumento del numero di pensionati rispetto ai lavoratori in servizio.
Con la destinazione ai fondi pensione delle retribuzioni collaterali – 13ma, 14ma, ferie – la pensione sarà ulteriormente ridotta dal 40 al 15 per cento dell’ultima retribuzione. è stato previsto in futuro, inoltre, l’obbligatorietà della destinazione, rendendola forzata, non solo per i lavoratori del settore privato ma anche dei pubblici dipendenti.
La paura dell’eccessivo debito pensionistico è una falsità in quanto le casse dell’INPS non sono in debito. La falsità viene utilizzata dallo Stato per nascondere un’altra truffa.
È intenzione dello Stato abolire le pensioni e regalare le somme di denaro dei contributi già versati (che nel 1998 ammontavano a sei milioni di miliardi di lire) ai grandi capitalisti (industriali e finanzieri).
Già negli anni novanta, ogni governo avanzava la convinzione della riforma dello stato sociale consistente unicamente nel cosiddetto “consolidamento del debito pensionistico”.
Ma cosa significa consolidamento? E cos’è il debito pensionistico?
La parola consolidamento significa: rifiuto di pagare un debito.
Il debito pensionistico sono le somme che lo Stato ha incamerato dai lavoratori sotto forma di contributi previdenziali per poi, nella vecchiaia, pagargli la pensione.
Pertanto, consolidamento del debito pensionistico significa che lo Stato, dopo aver incassato i contributi previdenziali detratti dalla retribuzione dei lavoratori, si rifiuta di restituirli, si rifiuta di pagargli la pensione.
E non pagando le pensioni, lo Stato regala i soldi dei contributi che ha già nelle proprie casse ai grossi capitalisti.
Questo è il progetto dello Stato. Quando i governi affermano che le pensioni attuali dovranno essere ridotte e che i giovani in futuro non avranno mai pensione, non fanno altro che attuare il progetto di rapina a danno dei lavoratori i quali si troveranno senza TFR e senza pensioni.
L’INAIL risarcisce solo il danno da incapacità lavorativa e cerca sempre di non riconoscere le malattie professionali. Con la legge del 2000 sono stati peggiorati i risarcimenti: le invalidità fino al 5% non sono risarcibili e la rendita è concessa solo dal 16% in poi. Riceve un risarcimento danni più la vittima della strada e non il lavoratore che subisce un incidente sul lavoro.

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Chiaramente i lavoratori che accetteranno l’imposizione di questa ristrutturazione e salari ancora più bassi, avranno maggiori possibilità di essere assunti e di evitare di essere licenziati o di rimanere disoccupati.
In tal senso sono state introdotte alcune misure.
Nel settembre 2008, governo, sindacati e padroni hanno siglato l’accordo ALITALIA il quale non ha interessato solo i lavoratori della compagnia aerea, come erroneamente hanno voluto far credere.
L’accordo Alitalia ha significato l’inizio della riforma dei salari di tutti i lavoratori.
Ogni azienda che dichiara lo stato di crisi può evitare l’obbligo di rispettare le garanzie e le tutele poste a difesa dei lavoratori.
Basta un commissariamento, una procedura di cassa integrazione o di mobilità e l’azienda può cambiare solo il nome.
Con il nuovo nome, l’azienda può licenziare tutti i lavoratori e procedere a nuove assunzioni, chiaramente a condizioni peggiori. E, cioè, con salari più bassi e con contratti precari, quali i contratti a termine, part time, a progetto, a somministrazione ecc. ecc.
Governo, sindacati e padroni hanno attuato un ulteriore passaggio verso il peggioramento con l’accordo del 22 gennaio 2009 con il quale hanno riformato la contrattazione collettiva.
L’accordo del 22 gennaio 2009 prevede che ogni singola azienda può stabilire il pagamento di salari in misura inferiore di quella prevista a livello nazionale.
La scusa adoperata per questa deroga in peggio è quella del minor costo della vita in alcune aree geografiche.
Si è parlato che gli accordi Alitalia e quello del 22 gennaio 2009 hanno reintrodotto le infami “gabbie salariali” che la lotta dei lavoratori negli anni ’60 aveva giustamente abolito.
In realtà, questi accordi sono ancora peggio delle gabbie salariali. Sono un mezzo per imporre la riduzione dei salari e far scatenare una concorrenza al ribasso tra i lavoratori delle singole aziende: quelli che accetteranno una paga inferiore avranno la promessa di non essere licenziati o più opportunità per essere assunti.
Così se i lavoratori italiani accetteranno salari più bassi dei lavoratori francesi, le imprese transalpine investiranno in Italia aprendo nuove fabbriche. Se i lavoratori meridionali accetteranno un salario inferiore a quello del nord, le imprese si sposteranno nel sud. Se i lavoratori di una zona del sud accetteranno una riduzione di salario rispetto a quello di un’altra zona del sud, le imprese si sposteranno in quella zona. Se i lavoratori di un’azienda accetteranno un salario inferiore di quello percepito dai lavoratori di un’altra azienda concorrente, avranno maggiore possibilità di non essere licenziati. Ciò sta già avvenendo non solo con le riforme federaliste ma, soprattutto, con i patti territoriali e i patti di aree di sviluppo (ben accettati da BASSOLINO e CITO affermando il superamento del federalismo e l’imposizione del municipalismo).
Per questi motivi si spiega l’abolizione della contrattazione collettiva che costituisce una indubitabile garanzia per il lavoratori e si reintroduce quella individuale. Il riferimento alla produttività non è altro che la contrattazione di ogni singolo lavoratore con il datore di lavoro in concorrenza con gli altri lavoratori.
Nel meridione, dove i disoccupati sono il 16% della forza lavoro, la retribuzione è già meno della metà di quel la del settentrione dove i disoccupati sono il 4%.
È chiaro che i settori più interessati a questo discorso sono quelli nella cui produzione incide fortemente il costo della manodopera. Ciò non sarà per le aziende chimiche in cui il costo del lavoro incide solo per il 15-20% sui costi totali. Infatti, le aziende chimiche difficilmente sono trasferite nelle zone a basso costo di manodopera a differenza di quanto già avviene per il settore tessile, calzaturiero, delle confezioni e manifatturiero in genere, le quali da tempo hanno provveduto a delocalizzare le loro imprese.
La tendenza sarà sempre più al ribasso vista la continua minaccia di delocalizzare la produzione all’estero.
Accordi padronali degli ultimi mesi hanno previsto che i salari mensili dei lavoratori italiani saranno di € 1.100 al nord, 750 al centro e 300 al sud.

da "Lavoro: che fare?" di Giovanni De Francesco

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