domenica 31 ottobre 2010

Cara ecologia_ da una lettera aperta al movimento ecologista, di Murray Bookchin


Gli anni '80 saranno un periodo estremamente critico per il movimento ecologico, sia negli Stati Uniti, sia in Europa. Il pericolo è quello di una crisi di identità e di obiettivi, ed è in gioco la capacità del movimento di adempiere alle fertili aspettative di soluzioni progressiste in alternativa alla sensibilità dominante, alle istituzioni gerarchiche politiche ed economiche e alle strategie manipolatorie per la trasformazione sociale, che hanno provocato una frattura catastrofica tra l'uomo e la natura. Per dirla senza mezzi termini: è probabile che nel prossimo decennio si decida definitivamente quale sarà il ruolo futuro del movimento ecologico: semplice appendice decorativa di una società intrinsecamente malate e antiecologica, perennemente dilaniata dal conflitto tra la natura e un'incontrollabile bisogno di dominazione, di controllo e di sfruttamento; oppure, come speriamo, campo sempre più vasto di esperienza e di apprendimento per una nuova società ecologica fondata sulla collaborazione reciproca, sulle comunità decentralizzate, sulla tecnologia popolare e su rapporti non-gerarchici, libertari, che realizzino una nuova armonia non solo tra gli uomini, ma anche tra l'uomo e la natura. Potrà forse sembrare presuntuoso che io, singolo individuo, rivolga un appello a quell'ormai vasto gruppo di persone le cui attività sono ispirate da un impegno in campo ecologico. Tuttavia, le mie preoccupazioni circa il futuro del movimento ecologico non sono impersonali, né effimere. Per quasi trent'anni ho affrontato nei miei scritti i problemi delle degenerazioni antiecologiche in tutti i settori della vita del nostro paese. (…) Credo, perciò, che il movimento ecologico possa considerarmi qualcosa di più che un intruso o un novellino. Le osservazioni contenute in questa lettera sono il frutto di una vasta esperienza personale e di una giustificata preoccupazione per la sorte delle idee alle quali per decenni ho dedicato grande attenzione.

Sono convinto che il mio lavoro e la mia esperienza in tutti i campi dell'impegno ecologico avrebbero scarso significato, se si limitassero ai problemi in sé, per quanto ciascuno di essi sia importante. Dire "NO" al nucleare, o agli additivi alimentari, all'industrializzazione dell'agricoltura, alla bomba atomica non è sufficiente, se limitiamo il nostro orizzonte affrontando isolatamente ciascun problema. È ugualmente importante individuare e svelare le cause sociali, i valori e i rapporti inumani che hanno portato alla creazione di un pianeta già profondamente intriso di veleni. Ho sempre pensato che ecologia fosse sinonimo di ecologia sociale e perciò ho sempre nutrito la convinzione che la stessa idea di dominare la natura derivi dalla dominazione dell'uomo sull'uomo, o dell'uomo sulla donna, del vecchio sul giovane, di un gruppo etnico su un altro, dello stato sulla società, della burocrazia sull'individuo, così come di una classe economica su un'altra e dei colonizzatori sui colonizzati. A mio avviso, l'ecologia sociale deve iniziare la lotta per la libertà non solo in fabbrica, ma anche nella famiglia; non solo nell'economia, ma anche nella psiche; non solo nelle condizioni materiali di vita, ma anche in quelle spirituali. Se non interverremo modificando anche i rapporti molecolari all'interno della società - e cioè quelli tra uomo e donna, tra adulti e bambini, tra gruppi razziali diversi, tra etero ed omosessuali (l'elenco potrebbe continuare a lungo) - il problema della dominazione resterà immutato anche in una forma sociale "senza classi" e "senza sfruttamento". E la società sarebbe intrisa di gerarchismo anche se celebrasse i dubbi valori della "democrazia popolare", del "socialismo" e della "proprietà collettiva" delle "risorse naturali". Finché durerà la gerarchia e finché la dominazione organizzerà l'umanità in un sistema elitario, l'obiettivo del dominio sulla natura non verrà mai abbandonato e condurrà inevitabilmente il pianeta all'estinzione ecologica.

Il nuovo movimento delle donne, ancor più della controcultura, della crociata per una tecnologia "appropriata" e del movimento antinucleare (dal quale escluderei però la frangia dell'"Earth Day", con le sue sortite repulistiche) mira al cuore della dominazione gerarchica che alimenta la nostra crisi ecologica. Il movimento ecologico potrà realizzare tutta la sua ricca e multiforme potenzialità di trasformazione della società antiecologica e dei suoi valori solo se la controcultura, il movimento per una tecnologia alternativa e il movimento antinucleare si fonderanno sulla sensibilità e sulle strutture non-gerarchiche che risultano soprattutto evidenti nelle tendenze veramente rivoluzionarie del femminismo. Infine, il movimento ecologico potrà conservare intatta la sua funzione di espressione di un nuovo equilibrio tra uomo e natura e il suo obiettivo di una società veramente ecologica solo se coltiverà coscientemente una sensibilità, una struttura e una strategia per la trasformazione sociale non-gerarchica e aliene dal concetto di dominazione.

Oggi questa funzione e questo obiettivo sono seriamente minacciati. L'ecologia è diventata una disciplina alla moda, direi quasi bizzarra, e la frivola popolarità di cui gode ha fatto nascere un nuovo tipo di maniaco dell'ambiente. Da una prospettiva e da un movimento che perlomeno facevano sperare nella possibilità di una lotta contro la gerarchia e la dominazione è nata una forma di ambientalismo fondato non sulla volontà di modificare le istituzioni, i rapporti sociali, le tecnologie e i valori esistenti, bensì sulla volontà di rabberciarli alla meglio. In questo senso uso il termine "ambientalismo" per significare un fenomeno in contrasto con l'ecologia, e in particolare con l'ecologia sociale. Mentre l'ecologia sociale mira all'eliminazione del concetto della dominazione dell'uomo sulla natura attraverso l'eliminazione della dominazione dell'uomo sull'uomo, l'ambientalismo è il riflesso di una sensibilità "strumentale" o tecnica, che considera la natura un semplice habitat passivo, un agglomerato di forze e di oggetti esterni, e si pone il fine di renderla più "utile" all'uomo, senza curarsi troppo di quale uso egli intenda farne. Di fatto, l'ambientalismo si riduce a mera ingegneria ambientale, e non affronta il problema cruciale della società in cui viviamo: la volontà dell'uomo di dominare la natura. Al contrario, mira a rendere più facile questa dominazione eliminando i rischi che essa potrebbe comportare. Gli stessi concetti di gerarchia e di dominazione sfumano dinnanzi all'enfasi tecnicistica posta sulla ricerca di fonti energetiche "alternative", cioè sui progetti strutturali per il "risparmio" di energia; dinnanzi ai modi di vita "semplici" che si identificano con i "limiti alla crescita" e che rappresentano ormai a buon diritto un'industria enormemente crescente - infine, naturalmente, dinanzi al proliferare dei candidati "ecologisti" alle elezioni politiche e addirittura dei partiti "ecologici", il cui scopo non è solo quello di dominare la natura, ma anche quello di indirizzare l'opinione pubblica sui binari di un atteggiamento accomodante nei confronti del sistema sociale esistente.

La moda dell'ecologia
Il satellite solare "ecologico" di 24 miglia quadrate di Nathan Glazer, le astronavi "ecologiche" di O'Neill e i giganteschi mulini a vento "ecologici" del DOE (tanto per citare gli esempi più macroscopici della mentalità ambientalista) non sono in realtà più "ecologici" delle centrali nucleari o dell'industrializzazione dell'agricoltura. Anzi, le loro pretese "ecologiche" sono più dannose, perché ingannano e disorientano la gente. Le ciance su una nuova "era della terra", o del sole o del vento, così come la futile retorica dei produttori di pannelli solari e degli inventori "ecologici" alla frenetica ricerca di un brevetto, riescono solo a nascondere la realtà dei fatti: e cioè che l'energia solare o eolica, l'agricoltura organica, il culto della salubrità e le conversioni alla "semplicità" modificheranno in modo quasi impercettibile lo squilibrio tra l'uomo e la natura, se continueranno a esistere la famiglia patriarcale, le multinazionali, le strutture politiche burocratiche e centralizzate, il sistema della proprietà privata e la razionalità tecnocratica che oggi prevalgono ovunque. L'energia solare, l'energia eolica, il metano, l'energia geotermica resteranno sempre e soltanto fonti di energia, finché i mezzi per utilizzarle saranno inutilmente complessi, controllati in modo burocratico, proprietà di monopolio o centralizzati in forme istituzionali. Certo, il danno che provocheranno alla salute degli esseri umani sarà assai minore di quello prodotto potenzialmente dalle centrali nucleari e dai combustibili fossili; tuttavia, la salute spirituale, morale e sociale dell'umanità subirà ugualmente un danno se le si considererà semplici tecniche, incapaci di generare nuovi rapporti tra l'uomo e la natura e nell'ambito stesso della società. Il progettista, il burocrate, il dirigente aziendale e il politico di carriera non arricchiscono la società e la nostra sensibilità verso la natura in senso ecologico perché seguono una via energetica "dolce"; come tutti i "tecnocritici" (per usare un appellativo che Alory Lovin adottò per definire se stesso in una conversazione con il sottoscritto), costoro tentano semplicemente di sminuire o di occultare i pericoli per la biosfera e per la vita umana costringendo le tecnologie ecologiche nella camicia di forza dei valori gerarchici, invece di criticare i valori e le istituzioni di cui sono rappresentanti.

Gerarchia e dominazione
Alla stessa stregua, anche la decentralizzazione perde ogni significato, se non presuppone una dimensione più umana e fa invece propri i concetti dell'accumulazione logistica delle scorte e del riciclaggio. Se il nostro obiettivo per la decentralizzazione sociale (o, come amano dire gli "ecologi" politici, per la ricerca di un equilibrio tra centralizzazione e decentralizzazione) consiste nell'approvvigionamento di "alimenti freschi" e nella possibilità di "riciclare i rifiuti", nel ridurre i "costi di trasporto" o nell'"incrementare" il controllo popolare totale e completo) sulla vita sociale, allora il concetto stesso di decentralizzazione perde il significato ecologico e libertario che la caratterizza come creazione di una rete di comunità libere e naturalmente equilibrate, fondate sulla democrazia diretta e sulla piena realizzazione dell'individuo, cioè sulla possibilità di gestirsi ed agire in quella piena e totale autonomia che è una componente vitale nella realizzazione di una società ecologica. Come la tecnologia alternativa, anche la decentralizzazione si riduce a mero artificio tecnico finalizzato all'occultamento della gerarchia e della dominazione. Gli ideali "ecologici" di un "controllo municipale del potere", di una "nazionalizzazione dell'industria", per non parlare di concetti vaghi come quello di "democrazia economica", sembrano porre in forse il sistema dei profitti e delle corporazioni industriali, ma in realtà non scalfiscono il sistema di controllo sociale. Infatti, una struttura corporativa nazionalizzata resta pur sempre una struttura burocratica e gerarchica. Come individuo che per decenni si è interessato, impegnato e battuto per i problemi ecologici, mi rivolgo agli ecologi più seri e consapevoli nella speranza di sensibilizzarli a un grave problema che affligge il movimento. Per esprimere le mie preoccupazioni nel modo più esplicito e diretto possibile: temo il diffondersi di una mentalità tecnocratica e di un opportunismo politico che minacciano di sostituire all'ecologia sociale una nuova forma di ingegneria sociale. Per un certo periodo il movimento è parso ben avviato verso la realizzazione del suo potenziale libertario e non-gerarchico. Rinvigorito dalle nuove tendenze progressiste del movimento femminista, omosessuale, comunitario e rivoluzionario, il movimento ecologico sembrava finalmente pronto a concentrare le proprie forze nel tentativo di trasformare le strutture basilari della società anti-ecologica, e non semplicemente nel tentativo di trovare nuove tecniche più allettanti per perpetuarla o nuovi cosmetici istituzionali per occultarne le piaghe inguaribili. La nascita e lo sviluppo dei gruppi antinucleari, di una rete decentralizzata di gruppi di affinità la cui attività si fondava su processi decisionali direttamente democratici, sembrò alimentare questa speranza. Il problema del movimento sembrava essere principalmente un problema di auto-formazione e di educazione sociale - la necessità di comprendere a fondo il significato della struttura dei gruppi di affinità come forma durevole e "familiare", il significato della democrazia diretta e del concetto di azione diretta come qualcosa di più che una "strategia": una sensibilità profonda, l'espressione del diritto che tutti hanno di controllare in modo diretto la propria vita.

sabato 23 ottobre 2010

La nostra sede...



il Paiarone si trova nel Sud Salento a 15 km da Santa Maria di Leuca. In questo magico luogo Rosy, Antonio, Raffa, Beppe, Ila, Gioele, Nando e Laura stanno cercando di sperimentare pratiche libertarie che attuano i principi della solidarietà, del mutualismo della collaborazione, il tutto in maniera sostenibile ed ecologica.

venerdì 22 ottobre 2010

Émile Armand; la rivoluzione come una globale "rivoluzione di coscienza", un salto di qualità esistenziale

Émile Armand (vero nome Ernest L. Luin) nacque a Parigi il 26 marzo 1872. Si avvicinò alle idee anarchiche solo verso i 25 anni, ma da quel momento iniziò un'opera infaticabile di pubblicista e propagandista. Nel 1901 dette vita alla sua prima rivista, «L'Ere Nouvelle» ("L'Era nuova"), che fu pubblicata fino al 1911, seguita da numerosissime altre pubblicazioni dai titoli significativi: «Les Rèfractaires» ("I Refrattari"), «Hors du Troupeau» ("Fuori dal Branco", dal 1911), «l'en dehors» ("l'al di fuori"), «Par delà la mêlée» ("Al di là della mischia", dal 1916), oltre ad un numero considerevole di opuscoli e alle due sue opere più importanti: L'initiation individualiste anarchiste ("L'iniziazione individualista anarchica", pubblicata nel 1923) e La révolution sexuelle et la camaraderie amoureuse ("La rivoluzione sessuale e il cameratismo amoroso", pubblicata 1934). Fu anche tra i più importanti collaboratori della stesura dell’ Encyclopédie Anarchiste di Sébastien Faure.

L'attività anarchica, pacifista e antimilitarista di Armand gli costò la repressione e la condanna al carcere. Arrestato il 6 agosto 1907, fu condannato il 9 maggio 1908 a cinque anni di prigione per complicità nell’emissione di moneta falsa. Fu arrestato una seconda volta il 6 ottobre 1917 e condannato il 5 gennaio 1918 ad altri cinque anni di prigione per complicità in diserzione (fu liberato nell’aprile del 1922). Il 27 gennaio 1940 ricevette una condanna per incitazione all'insubordinazione e il 16 aprile seguente internato in diversi campi di prigionia fino al settembre 1914. L'azione militante di Armand si orientò verso le milieux libres (colonie anarchiche) dove veniva praticato l’amore libero, il naturismo e il cameratismo amoroso quali pratiche di vita libertaria. L'ultima produzione della sua lunghissima militanza (il periodico «L'Unique») è del 1945 e continuò fino al termine degli "anni '50", cioè poco prima della sua morte, avvenuta nel 1962, all'età di 90 anni.

Il pensiero
Émile Armand è uno degli esponenti principali dell'individualismo anarchico europeo. Le sue concezioni non vanno confuse né con quelle dei sostenitori del "gesto esemplare", né con quelle dei c.d. antiorganizzatori. L'individualismo di Armand può invece esere considerato come una completa "filosofia di vita": «l'anarchico è quell'individuo che esprime un'insofferenza esistenziale contro ogni forma di autorità, che lotta contro il potere prima di tutto perché esso lo opprime direttamente». Il singolo soggetto è l'alfa e l'omega di ogni riferimento giustificativo della prassi, la vera e l'unica certezza che dà valore agli scopi della lotta. La rivoluzione di Armand è una globale «rivoluzione di coscienza», un salto di qualità esistenziale, un modo radicalmente autentico di rapportarsi al mondo fisico e sociale. Coinvolgendo integralmente l'individuo, essa non ammette "scissioni" tra privato e pubblico, ma non nel senso marxiano di identificazione del singolo con la "società". Al contrario, è sempre e soltanto l'individuo a decidere e volere la propria coerenza tra privato e pubblico, senza mai renderne conto a nessuno. Il che non equivale a postulare un individualismo miope ed egoista, con ciascun uomo racchiuso nella corazza del "suo particulare". Significa piuttosto adombrare una concezione "pluralistica" dell'esistenza, vista come possibilità di realizzare un vissuto non monocorde ma ampiamente differenziato. L'idea di libertà, per Armand, è strettamente intrecciata con quella di felicità, col diritto di ogni persona ad attuarsi completamente.


La reciprocità
Secondo Armand il metodo della reciprocità è «il metodo la cui applicazione assoluta garantirebbe coloro che lo adottassero come base dei loro rapporti o dei loro accordi, contro ogni lesione, ogni frode, ogni inganno materiale e contro ogni diminuzione, ogni ferita della loro dignità personale». «Lealmente praticato, in qualsiasi campo dell'attività umana, il metodo della reciprocità implica in sé l'equità, così nella sfera economica come in quella dei costumi, così nel campo intellettuale come in quello del sentimento». Armand precisa che «ricevere altrettanto di quanto si è dato non significa soltanto avere l'equivalente in peso, in misura, in qualità, in valore, di ciò che si è dato, ma significa anche e soprattutto essere soddisfatto del contratto fatto, significa aver piena coscienza che nell'"affare" trattato - intellettuale, sentimentale, economico - non vi sia stato, da una parte come dall'altra, né ingannatore, né ingannato, né frodatore, né frodato; in altre parole che ciascuno, durante il contratto, ha agito secondo il proprio determinismo e si è mostrato nella sua veste». Secondo Armand laddove esiste la reciprocità nei prodotti e nelle azioni non vi può essere posto per la diffidenza, il dubbio o il rancore.


L'amore libero
Per Armand l’amore deve essere esercitato liberamente, senza alcuna restrizione di tipo morale, in un contesto di cameratismo amoroso definito come «libero contratto (rescindibile con preavviso o non, dopo accordo preliminare)» concluso tra individui di sesso differente, il cui scopo è «d’assicurare i contraenti da certi rischi delle esperienze amorose quali il rifiuto, la fine dell’amore, la gelosia, il capriccio, l’indifferenza ecc.». In questo modo l’amoralismo sessuale, secondo Armand, distrugge gli “elementi cardine” della schiavitù: il vizio, la virtù, la purezza, la castità, la fedeltà ecc.

Questi elementi non fanno altro che giustificare l’esistenza dello Stato e della Chiesa nel loro ruolo di guardiani dell’ordine e della moralità, e come tali vanno distrutti.

domenica 17 ottobre 2010

Sostenibilità, la scelta libertaria _ da "A"

Il continuo peggioramento delle condizioni ambientali del pianeta palesa, senza ombra di dubbio, che in questo momento l’umanità non è in condizione di avviare una politica atta ad invertire le tendenze in atto.
Nonostante vi sia una diffusa consapevolezza ed una approfondita conoscenza scientifica delle modalità con cui l’uomo altera l’ambiente e su come queste variazioni comportino effetti negativi, immediati e duraturi, alla sua salute, nonostante vi siano tutte le strumentazioni tecniche necessarie per modificare le cause, non è attivata un’azione complessiva che possa ridurre i fenomeni di degrado riscontrati.
Da diversi decenni il termine sostenibilità è divenuto parte del linguaggio, indicando con esso la ricerca e la pratica di soluzioni in grado di non peggiorare ulteriormente le condizioni del pianeta. In tale maniera, per quanto le definizione del termine possano sembrare aleatorie, comunque è stata dichiarata la possibilità che vi siano scelte concretamente perseguibili.
Potendo oggi fare un bilancio di quanto fatto in questa direzione negli ultimi trenta anni da molte decine di paesi, è da quasi tutte le organizzazioni internazionali in cui si affronta il problema della sostenibilità, si può concludere che il modello praticato è stato capace di peggiorare in maniera significativa la già grave situazione. E questo nonostante la rarefazione nel tempo del termine sostenibilità, nonostante la grande confusione terminologica volutamente creata dagli operatori per mistificare le proprie azioni e presentarle come ambientalmente qualificate. I successi raggiunti sono parziali, specifici, locali e contribuiscono a dimostrare tanto che altri percorsi sono perseguibili quanto che pur avendone le capacità non sono diffusamente perseguiti.
La grande confusione che interessa le modalità con cui viene attribuito l’aggettivo “sostenibile” o “ambientale” ai progetti, alle merci, ai manufatti evidenzia come la cultura di questo modello (la società capitalistica) abbia una cattiva coscienza. La cattiva coscienza di sapere perfettamente che un percorso di sostenibilità cambia profondamente la struttura culturale, sociale e produttiva di una società e di non volerla cambiare anche a rischio della salute di tutta la popolazione planetaria.
La sostenibilità non è compatibile con questo modello, è alternativa. Perché parla un linguaggio diverso. se si vuole adoperarsi per essa in primo luogo non è possibile parlare di crescita, vanno ridotte le quantità, vanno ridistribuite le ricchezze per permettere un miglioramento del benessere dei molti, vanno eliminati gli sprechi che sono la ragione della rincorsa all’arricchimento, va eliminata l’accumulazione, va aumentata l’autonomia e la consapevolezza delle comunità.
Per bloccare il continuo peggioramento delle condizioni del pianeta, non sono sufficienti gli stentati passi fatti dai governi, è necessario avviare un processo diffuso di riqualificazione e conservazione ambientale che limiti gli interessi di quelli che sono i motori primi di questo modello, che riduca i profitti, che modifichi la cultura allineata alla difesa di piccoli vantaggi di una società dannosa per l’ambiente e nociva per gli uomini.
Per fare questo si ritiene che si debbano acquisire comportamenti individuali e collettivi che consentano di uscire dalla trappola letale del quotidiano, dalla schiavitù delle merci, dall’asservimento ad abitudini incongrue, dall’autoritarismo delle decisioni, dal decisionismo dei poteri economici.
Ciò si può attuare solo nell’ambito della cultura libertaria.

Da molto tempo è noto quanto il comportamento degli individui possa migliorare le condizioni dell’ambiente. Acquisti orientati nei confronti di merci di maggiore qualità ecologica, riduzione dei consumi energetici attraverso una gestione oculata degli impianti e degli elettrodomestici, riduzione delle emissioni con l’uso di vettori alternativi e innovativi, sostituzione a livello privato dell’energia da fonti fossili con quelle rinnovabili. Ma l’attenzione di moltissime persone nei confronti di comportamenti ambientalmente e socialmente qualificati è contrastata dall’economicità delle merci a minore qualità ambientale (prodotti di qualità minore spesso scaturenti da processi dequalificati) e dalla promozioni di merci fortemente inquinanti. Quante lampadine a incandescenza dobbiamo sostituire per recuperare la differenza di energia esistente tra la costruzione e l’uso di un autoveicolo di piccola cilindrata ed un SUV? Quanti classi di Euro (siamo a Euro 4) dobbiamo percorrere per recuperare l’incremento medio di cilindrate che i produttori hanno attuato nell’ultimo ventennio?
L’eventuale differenza di qualità del caffè prodotto da una macchinetta normale e da una caffettiera tipo bar a cialde motiva lo sperpero di energia per costruire e gestire i due strumenti e l’incremento di rifiuti che il sistema cialde comporta (anche se fossero “riciclabili”, “biodegradabili”, “naturali”, etc).
Questi prodotti non hanno l’obbiettivo di ridurre il peso ambientale della nostra specie. Si muovono autonomamente dagli interessi dell’umanità, su regole e criteri propri: aumentare i profitti dei produttori, ampliare il mercato, inventare merci rivolte a specifiche categorie di consumatori.
Vi è l’interesse della produzione nel predisporre oggetti di grande dimensione, perché attraverso di essi riescono a motivare i costi elevati a parità di funzione, e oggetti che complicano la funzione perché ne sostengono l’utilità. Questo tipo di oggetti, grandi, complessi, a breve durata, sono esaltati dai produttori rispetto ad altre merci (con la stessa funzione ma semplici e correttamente dimensionati) e su questi scatenano tutta la comunicazione e le motivazioni emozionali sostengono le vendite.
La popolazione mondiale è sottoposta ad un continuo bombardamento di comunicazioni commerciali, accattivanti, gustose che propongono soluzioni affascinanti a problemi inesistenti, progettate da specialisti, realizzate da tecnici di grande capacità; cosi facendo riescono a indirizzare i desideri a riportarli nell’ambito del mercato ed in questa maniera a esaudirli. Gli individui sono stravolti da questa messe di piacere: rispondono per gran parte impegnando più di quello che posseggono, lavorando oltre misura per poter accedere alla soddisfazione degli acquisti. È un dato che gran parte dei grandi centri commerciali sono strapieni il sabato e la domenica, giornate in cui l’acquisto ha sostituito altre forme di diletto per gran parte degli abitanti non poveri del pianeta.
I comportamenti ecologici quindi sono molto impegnativi per la difficoltà di essere praticati in un modello che facilita comportamenti opposti, di trovare le merci a basso impatto, di contrattare e gestire artigiani e autoproduttori, per la difficoltà a trovare la collaborazione di altri nel percorso avviato, per la distanza enorme che separa questi comportamenti da quelli maggiormente diffusi.
La produzione immette sul mercato prodotti che sempre più artificializzano la nostra esistenza, sempre più concentrano i profitti, sostengono monopoli, espropriano la cultura delle comunità, definiscono e impongono nuove modalità di vita. Il fine commerciale ha strutturato la società, ha definito una nuova modalità di vita, ha modificato le relazioni e i comportamenti sotto gli occhi di tutti i governi, sprecando un patrimonio creativo e culturale immenso. Ed allora diviene una battaglia non avere i supplementi gratuiti dei quotidiani (tanta carta quanta pubblicità, vera ragione di stampare il giornale), una battaglia non avere la doppia confezione in plastica al supermercato, una scelta politica andare a fare la spesa con una borsa non monouso o avere una macchina vecchia.
Non usare la carta di credito è visto come un atto da “individuo in via di sviluppo”. Un comportamento ecologico diviene “anacronistico”, da tradizionalista, da chi vuole “un passato che non può tornare”.
Non è cosi. Chi pensa in termini ambientali non pensa al passato né al futuro, pensa al presente ed alla capacità delle comunità e degli individui di essere capaci di scegliere indipendentemente dalle pressioni del commercio. In questo la coerenza dell’individuo è fondamentale. Non ammentata di “eroismo”, ne’ di “integralismo”, è l’unico mezzo che permette di difendersi da una aggressione interessata che mina la capacità critica. La coerenza è contagiosa.
Alla scelte individuali va però affiancata una pratica tesa a smascherare le malefatte ed elogiare le azioni congrue svolte dagli altri, visto che molti, per incapacità di critica o per interesse, perseguono obbiettivi dannosi per tutti. A partire dall’evidenziare le seppur involontarie connivenze di coloro che praticano comportamenti che sostengono un modello dannoso per gran parte dell’umanità e non in condizione di migliorare le condizioni dell’ambiente. Fino ad arrivare alle scelte delle nazioni, cosi frequentemente tese a sostenere gli interessi economici anche a scapito degli interessi comuni.
Con serenità, senza astio, ma con consapevolezza che c’è spazio per concretizzare una spinta critica e libertaria già diffusamente presente nel pianeta.
Il discernimento per individuare azioni sostenibili è la verifica della loro capacità almeno di:
- Ridurre i consumi;
- Ridurre l’incremento demografico;
- Ridurre il consumo dei suoli derivato dall’Infrastrutturazione e dall’espansione urbana;
- Riqualificare e conservare la naturalità;
- Mantenere la diversità naturale e culturale;
- Recuperare, riusare, riciclare i manufatti e le merci;
- Sostenere tutte le forme di produzione e scambio poste al di fuori del mercato globale;
- Sostenere la deindustrializzazione globale, dando spazio all’artigianato, alla produzione locale
- Sostenere l’equilibrio insediamento-risorse a livello locale, chiudendo i cicli e perseguendo l’autonomia economica delle comunità;
- Sostenere le identità delle comunità geografiche ed a-geografiche, le culture locali, le lingue, le capacità tecniche. Non tradizionalismo ma comunità aperte e identificabili in quanto strettamente connesse ai luoghi;
- Sostenere mobilità e produzione energetica alternative, non centralizzate, non monopolisti- che, necessarie, da fonti rinnovabili.

Tutto quanto non riesce a contribuire a ciò non può essere considerato sostenibile.
Ma queste azioni non sono compatibili con l’attuale struttura economica e sociale in quanto riducono le quantità, modificano le qualità, distribuiscono le ricchezze, smaterializzano i beni, rendono partecipi gli individui delle dinamiche sociali che li riguardano, concretizzano il senso critico in azione, sviluppano la consapevolezza di ciascuno e la solidarietà degli individui, promuovono la partecipazione diretta alla gestione della società.
Al contrario si adattano precisamente ai caratteri di una società libertaria.

sabato 16 ottobre 2010

La macabra danza dei morti viventi _ di Antonio Cardella


Altro che teatrino della vecchia politica. Lo spettacolo che offre la società del potere è ancora più inguardabile, ma al contempo provoca conseguenze che pesano – eccome! – sul popolo (elettore).

Mentre scrivo, siamo alle soglie dell’autunno, è difficile immaginare come evolverà la situazione politica italiana nelle prossime settimane. Quello che a me sembra evidente è che non cambierà molto. Si è paralizzati da una somma di impotenze che cristallizzano il panorama politico-affaristico-malavitoso che è sotto gli occhi di tutti.
Prevale il terrore che un eventuale ricorso alle urne sovverta il sistema Italia.
Berlusconi sa bene che, nell’ipotesi dovesse perdere il potere gigantesco che ha acquistato nell’ultima tornata elettorale, con una maggioranza schiacciante sia alla Camera che al Senato, non solo i suoi avversari ma anche i suoi amici/dipendenti lo farebbero a pezzi. Crollato l’apparato che si è creato a difesa dei suoi interessi e che alimenta la sopravvivenza della sua corte dei miracoli, non gli resterebbe che la via dell’esilio, quella via già percorsa dal suo sodale di un tempo, Bettino Craxi.
L’opposizione (o presunta tale) è inguardabile. Non riesce neppure a costituire un nucleo credibile di soggetti che si siedano attorno ad un tavolo per tentare di elaborare, non dico una strategia di lungo termine, ma neppure una tattica di emergenza che li renda presentabili ad un eventuale corpo elettorale. Utilizzano giornali compiacenti per lanciare appelli e vaneggiare su futuri scenari nei quali si affermino progetti politici che non sono in grado neppure di delineare ma che promettono di elaborare non si sa bene a quale epoca. L’unica cosa in cui riescono alla perfezione è di dimostrare ad un’opinione pubblica frastornata la conflittualità  interna che li corrode.
Tra queste due armate Brancaleone sopravvive una palude di incredibili morti-viventi che, al crollo della vecchia DC, i becchini hanno dimenticato di seppellire. I Casini, i Pisanu, i Rotondi, ma anche i Rutelli, le Binetti, i Cesa e via dicendo sono anime morte vaganti nelle notti di questa povera Repubblica.
Non meraviglia che in questo regno delle streghe prendano corpo esistenze preistoriche che imbraccino spade e lance di latta, occultino il viso in elmi sgangherati e compiano riti propiziatori a divinità celtiche, evocate da menti deliranti. Personaggi come Borghezio, Bossi padre e Bossi figlio, il giullare Calderoli e il pallido Cota, evasi inopinatamente dagli antri cavernosi di leggende del terrore, sono qui tra noi a mordere la coda di Berlusconi e ad appestare l’aria del Paese.
Che succederà nei prossimi mesi? Che volete che succeda se i protagonisti della nostra contemporaneità sono quelli bonariamente descritti in queste righe?

Il fondo del barile
Succederà invece molto nella vita della gente.
Tutti gli indicatori economici concordano nel sostenere che siamo assai lontani dalla soluzione della crisi. Una crisi che coinvolge certamente l’intero vecchio continente, ma in particolare l’Italia che non possiede anticorpi efficienti.
Per non tediarvi con cifre e commenti tecnici, vorrei solo accennare al crollo dei titoli di Stato i cui rendimenti dall’aprile di quest’anno si sono dimezzati. Cosi in Europa i titoli a dieci anni, USA e Gran Bretagna dal 4% si sono ridotti al 2.4%, mentre i titoli tedeschi sono scesi dal 3.4% all’1.8%.
Di per se questi indicatori non descrivono lo stato della crisi, ma sono rilevatori delle aspettative degli investitori sulle capacità del Vecchi Continente di arginare la crescita del debito pubblico e il timore che, per venire in qualche modo a capo, gli Stati inneschino processi inflattivi. Insomma, la preoccupazione è che ad una stagnazione della crescita si aggiunga (lo aggiungiamo noi) la solita tassa (l’inflazione) sui già poveri.
L’andamento della crescita, del resto, non promette nulla di buono. Se si eccettua la fiammata tedesca (+ 3.7% su base annua) per l’incremento dell’esportazione, gli altri Paesi di Eurolandia non crescono molto al di sopra dell’1 – 1.4%. ma soprattutto non crescono i consumi, come è naturale quando aumentano le espulsioni dai cicli produttivi di lavoratori che non trovano alternative in un mercato del lavoro bloccato, anzi, in arretramento, e quando si falcidiano i redditi degli occupati.
Qui da noi il governo ha rischiato il fondo del barile e non ci sono soldi nemmeno per concludere i lavori dei cantieri aperti. Gli unici indici in aumento sono quelli delle rendite parassitarie. In prima fila le banche che strozzano l’economia reale con il tirare i cordoni del credito e si coalizzano per penalizzare quel poco del risparmio privato che ancora esiste.

Marchionne e la nuova borghesia
C’è poi l’attacco frontale ai diritti dei lavoratori, conquistati con grandi sacrifici alla fine degli anni Settanta del secolo scorso con il contratto collettivo dei metalmeccanici e culminato nel 1971 con lo statuto dei lavoratori.
Marchionne è stato chiaro in proposito. La battaglia che ha ingaggiato per conto della Fiat, ma anche per il tornaconto dell’intero apparato industriale in Italia e non soltanto, ripropone lo schema premoderno dell’impresa come luogo del lavoro forzato, del padrone che è arbitro assoluto della vita del proprio dipendente, al quale nega ogni diritto. Il ricatto è il dirottamento dei propri investimenti in territori alternativi più accoglienti.
Ad una sfida di queste dimensioni, la lotta per la sola difesa del posto di lavoro non paga. Governo e sindacati, tranne nicchie di resistenza poco significative in rapporto all’entità delle questioni in gioco, si schiereranno con l’impresa, come già hanno fatto per lo stabilimento fiat di Pomigliano, e il lavoratore si troverà ancora una volta solo, senza alcuna tutela.
A questo punto il ricorso a fantasmi del passato come la lotta di classe è un abbaiare alla luna ed un alibi per giustificare la propria impotenza.
La classe non c’è più. Cosi come l’aveva teorizzata Marx all’epoca della prima rivoluzione industriale, è stata travolta già alla fine della seconda rivoluzione Fordista, ha perso definitivamente i suoi connotati con l’informatizzazione dei processi produttivi e l’avvento delle tecnologie di frontiera.
In questa fase la protagonista è una nuova borghesia preparata ad affrontare i piccoli e grandi problemi dell’economia capitalistica. Quella categoria di salariati dell’industria manifatturiera che concorreva alla valorizzazione del capitale (Marx) e che, secondo il suo teorizzatore, sola costituiva una opposizione significativa al capitalismo (contadini, artigiani, piccoli commercianti, ecc. costituivano un sottoproletariato a rimorchio dei lavoratori dell’industria), ebbene questa classe ha mancato l’appuntamento con la storia, e nel secondo millennio si trova ad essere espulsa dai cicli della nuova produzione capitalistica.

Agli anarchici spetterebbe il compito di rielaborare una strategia della rivoluzione che unisca tutti gli uomini liberi, a prescindere dai ruoli che la logica del dominio ha tradizionalmente loro assegnato. Proseguiremmo cosi il cammino tracciato dai nostri Maestri che si sono sempre opposti ad ogni forma di discriminazione tra gli uomini e si sono sempre battuti per una società di liberi ed uguali. Un grande tavolo per rivedere forme di lotta che ci affranchino dal riformismo, ci liberino da formule stantie che non ci hanno portato da nessuna parte e ci consentano di aggregare tutti gli uomini che intendono intraprendere, anche inconsapevolmente, il cammino verso una esistenza libertaria.

sabato 9 ottobre 2010

Il Parco del Vesuvio. Ovvero: una puzza ci seppellirà _ di Carmine Cimmino


Una storia del carattere di noi vesuviani risulterebbe, alla fine, una tragicommedia, scritta, musicata e messa in scena dal Vesuvio, ovviamente, e recitata, purtroppo, da attori mediocri , a cui tuttavia per tre secoli il Vesuvio ha garantito la sua complicità. Per tre secoli osservatori attenti e stupiti, viaggiatori, teologi, scrittori di taglia varia e di diversa scuola, hanno cercato di capire cosa spingesse i vesuviani a tornare, dopo ogni eruzione, in villaggi e paesi sgarrupati, a coltivare di nuovo gli orti, a ripiantare le viti, e a ricostruire le case: sebbene nessuno potesse garantire che il Vesuvio non si sarebbe agitato di nuovo, senza preavviso, di lì a un secolo o il giorno dopo.
Fu facile concludere che i vesuviani tornavano sollecitati dal coraggio, dall’amore dei luoghi, dal culto delle memorie: insomma da tutte quelle sonore parole di cui spesso ci serviamo per truccare la faccia della verità, quando la verità ha una faccia devastata dalle rughe. Grazie alla connivenza e alla complicità del vulcano, riuscimmo a far passare per nobili virtù – un mazzetto di nobili virtù - le manifestazioni di un solo, comune, vizioso sentimento: il piacere della precarietà. Le eruzioni divennero un colpo di fortuna, e fummo abili a trarre dalla catastrofe un utile cospicuo e imprevisto. Il Vesuvio ci consentiva di uscire fuori dalla linea del tempo, e dunque fuori dalla storia.
Napoli fuori dalla storia è il titolo dell’articolo con cui qualche tempo fa Benedetto Gravagnuolo è intervenuto, sul Corriere del Mezzogiorno, nel dibattito sulla città immobile. In un passaggio egli ha dissentito dalla tesi di Franco Piperno, per il quale questo ritardo epocale tante volte denunciato, quella disgrazia così spesso lamentata, si rovescia in una fortuna insperata. La fortuna sarebbe questa: restando fuori dalla storia, da questa storia, da questa modernità, Napoli potrebbe costruire un modello di civiltà alternativo a quello che imprigiona oggi la nostra vita. Gravagnuolo ricorda che questo paradosso l’aveva già pensato Pasolini: aggiungo che qualcosa di simile passò anche per la fervida mente di Petruccelli della Gattina.
Ma i napoletani e il loro immobilismo, e le ragioni di questo immobilismo, e il suo valore, costituiscono un problema a sé, non hanno niente in comune con noi vesuviani e con il nostro stare fuori dalla storia. Perché noi la modernità l’abbiamo accettata, e la condividiamo, ma dopo averla filtrata attraverso il sentimento della precarietà. Progettare il futuro, ridisegnare il profilo della comunità, combattere per i diritti, i diritti propri e quelli degli altri, guardare in faccia i problemi: tutte cose belle e buone, ma per gli altri, che non vivono sotto il Vesuvio. Per noi, non hanno senso: anche noi vorremmo, penseremmo, desidereremmo, anche noi bla bla bla: ma purtroppo c’è il Vesuvio: non ha senso costruire, in riva al mare, castelli che poi la natura violenta del mare spazzerà via con una sola ondata.
La scusa era, ed è, buona. Ci siamo seduti a terra, ad aspettare che il presente e il futuro ci venissero addosso. Il Vesuvio ci ha permesso di restare bambini. Bamboccioni, direbbe qualcuno. Ma la complicità del vulcano giustifica solo la vista e l’udito. A terra è steso un morto ammazzato, noi lo vediamo, ma solo per scavalcarlo. È una fotografia famosa, fece il giro del mondo, come quella dell’ uomo trucidato in pizzeria, la testa reclinata nel piatto della pizza, terribile metafora della napoletanità gaglioffa e trucida. Vista e udito sanno dissimulare, fingere, sanno non vedere e non sentire, sanno vedere e sentire ciò che non c’è: e dunque da noi prima che nel resto d’Italia è capitato che un delinquente tenesse pubblici sermoni sulla legalità e un immorale patentato tuonasse a difesa della moralità, e che noi applaudissimo: le mani possono essere isolate e sconnesse dall’intelletto, e l’intelletto dall’udito e dalla vista.
Quanti applausi abbiamo sprecato, e sprechiamo, quanti ne contaminiamo indirizzandoli a chi dovrebbe esser preso a torsi di cavoli in faccia. Abbiamo visto la Campania ridotta a pattumiera, ma non abbiamo visto, perché, per rassicurarci, la monnezza la nascondevano sotto le verze, sotto il pascolo degli animali da pascolo, sotto i meli e i peschi e i ciliegi, dentro le bistecche e dentro le melanzane, dentro l’acqua, dentro le cellule dei corpi aggrediti e stravolti dalla malattia. Vediamo e sentiamo, se vogliamo, e se vogliamo, non vediamo e non sentiamo. Ricordo la calma con cui, durante un convegno sulla discarica di Tufino, il pubblico ascoltò l’esperto che commentava le terribili statistiche dei decessi imputabili all’inquinamento del territorio. Quella calma spiegava tutto.
La morte è sempre un problema degli altri. E dunque che la monnezza appili i buchi nella pancia del Vesuvio, che si apra pure una discarica nel cuore del Parco Nazionale, del Parco che avrebbe dovuto fare, tutelare, proteggere bla bla bla. Fiumi di liquame immondo e di gorgogliante percolato inzuppino pure le radici delle vigne preziose e corrompano il corpo del vino più nobile d’Italia, un vino che è mito e storia come nessun altro vino al mondo. Abbiamo accettato tutto questo, abbiamo sopportato vergognosamente l’oltraggio estremo: a Roma dei signori lombardi hanno deciso che così doveva essere, e qui i nostri amministratori hanno piegato il capo, e noi abbiamo piegato il capo: se così deve essere, così sia.
Applausi. In fin dei conti è una discarica; che sarà mai una discarica: in fin dei conti, è colpa nostra, se non facciamo la differenziata, se non vogliamo l’inceneritore, è colpa nostra se dietro l’affare della monnezza c’è la camorra. In fin dei conti la discarica sta tra Terzigno e Bosco: a noi ottavianesi, o sommesi, o sangennaresi, che ce ne frega? Anche noi avemmo, e abbiamo, le nostre discariche.
La vista e l’udito si persuadono con poco. Tutto tranquillo. Perfino il Parco ha continuato a esistere: ma questa è una stranezza esagerata: questa stranezza ce la dovranno spiegare.
Poi è arrivata la puzza. Una puzza smisurata, molle, ferruginosa, la puzza ha occupato l’aria il cielo ha impregnato la terra, una puzza che circonda, avviluppa, macera, attacca i pori, artiglia il cervello, rintrona le orecchie, offusca gli occhi, ottenebra la luce, entra nelle narici e nella bocca come un fiato putrido, irride la nostra soglia di sopportazione, già avvilita e fiaccata da profumi lacche deodoranti dopobarba aromi e fragranze dai nomi esotici con la erre moscia. Non possiamo più fingere, non possiamo più fare teatro: l’olfatto non si acconcia alla nostra volontà, non si gira da un’altra parte, non fa finta di non percepire.
L’olfatto è un senso sincero e libero: è come la coscienza: è implacabile come il rimorso. Il Vesuvio, incazzato, non ha voluto occultare la puzza, non ha voluto aiutarci a nasconderci a noi stessi, ci ha trascinati davanti allo specchio del fetore, e dopo averci strappato dal viso le molte maschere, ci ha squadernato sotto gli occhi la sostanza della nostra viltà, vera, autentica, tangibile, assoluta. Ma forse è troppo tardi per un esame di coscienza.
Ci resta da fare una sola cosa: distillare questa puzza, e chiuderne l’essenza in flaconi e boccette, ed esportarla, regalarla , usarla come risposta silenziosa, pacifica e definitiva a tutti quei signori laccati e profumati che nei salotti televisivi, profumati e laccati, discutono, da lontano, di questa puzza, e, fingendo di sbraitare e di accapigliarsi, oppongono alla ciclopica terribile nuda realtà di questa puzza solo chiacchiere: chiacchiere a secchiate. Questa puzza potremmo chiamarla Notte vesuviana

Fonte: www.ilmediano.it 

domenica 3 ottobre 2010

NO WAY OUT

Energia pulita e di tutti - NO alle multinazionali!

La logica liberista dominante, con la sua capacità d’induzione è riuscita ad imporre un immaginario economico fondato sull’impresa personalistica, sul mito del progresso, sulla voglia di accaparramento individualistico delle finanze e delle risorse, sul perseguimento a tutti i costi di potere e dell’aumento di potere. A tutti gli effetti ha creato disparità, ingiustizia e prevaricazione, con la precisa volontà di inglobarci e condurci all’impotenza. Di rimando sentiamo perciò sempre di più il bisogno di destrutturare quest’immaginario dominante, di decolonizzarlo liberando le potenzialità e le capacita del più ampio immaginario umano per sperimentare e, sperimentando, creare altri tipi di economia e di rapporti sociali e politici.

Il nostro disagio trova conforto ed è confermato nelle sue ragioni dalla consapevolezza che il capitalismo in auge è in sé insensato perché, ormai, ne abbiamo le conferma scientifica, non è sostenibile. Propugna, auspica e si fonda,infatti, sull’uso incondizionato e spropositato delle risorse naturali, senza preoccuparsi dell’inarrestabile depauperamento delle stesse fino al loro esaurimento. Dovendo realizzare un costante aumento di profitti e di accumulazione finanziaria per dominare i mercati, per questa sua ineludibile ragion d’essere non può e non vuole minimante preoccuparsi dello sfascio ambientale che provoca mettendo in crisi gli equilibri naturali.

Con sempre maggiore preoccupazione gli scienziati, i climatologi, i geologi, i naturalisti denunciano che, se non verrà arrestata questa folle e sconsiderata corsa all’accaparramento delle risorse naturali e se non verrà bloccata l’immissione nella biosfera, non è lontano il tempo in cui il danno sarà irreversibile e sarà per sempre messa in discussione la presenza di tutte le forme di vita sulla terra. Il 20% della popolazione mondiale consuma attualmente circa l’80% delle risorse disponibili. Se malauguratamente il capitalismo dovesse mantenere le sue promesse di consumo elargito a tutti, se quindi tutti dovessero consumare quanto consuma l’attuale 20 % , come sarebbe loro diritto, questo pianeta sarebbe del tutto insufficiente, ci vorrebbero almeno 4 pianeti e forse 6.

C’ è un aspetto che generalmente vien poco considerato se non addirittura eluso; avendo bisogno di imporsi, il capitalismo si regge su sistemi politici impositivi che per conservare l’esistente includono progressivamente pratiche sempre meno democratiche e liberticide.

C’è di fatto una coincidenza ricorrente tra il bisogno impositivo a monte del sistema capitalista e la gestione politica autoritaria che lo accompagna e lo garantisce.

La modifica di facciata che veste i panni della partecipazione per nascondere l’imposizione serve a nascondere che da modificare è l’immaginario economico e gestionale che regola le relazioni tra noi e stessi e l’ambiente che ci ospita.

Il rapporto tra i componenti di un ecosistema è paritario ed ognuna prende l’energia in quantità che le serve al suo sostentamento senza determinare imposizioni di sorta. Non vi sono processi di accumulazione oltre l’indispensabile dovuti a volontà di speculazione . Non diciamo che dobbiamo copiare dagli ecosistemi, la qual cosa non avrebbe senso perché le dinamiche naturali non sono riproducibili come fotocopie, ma che dovremmo comprenderne appieno il senso e farne tesoro per riproporli al nostro interno e nelle qualità delle relazioni tra noi stessi e il resto del mondo. Dovremmo così porci nell’ottica di gestire le società col presupposto della reciprocità e di un’autentica valorizzazione delle diversità su un piano di rapporti paritari, come appunto avviene negli ecosistemi. Ma dovremmo anche smettere di porci con egoistico spirito di depredazione nei confronti del contesto ambientale di cui siamo parte integrante.

Noi diciamo che l’energia alternativa del sole e del vento che è appartenenza di tutti, dovrebbe consentire ad ogni casa ed ogni fabbrica (possibilmente collettivizzate) di possedere i propri accumulatori e applicare ogni sistema applicabile per la produzione energetica,dalle biomasse al biodiesel di colza.

L’energia gestita dalle multinazionali crea grandi aree di installazione di sistemi per l’accumulo energetico ,le grandi centrali,che nel caso di incidenti provocano grandi disastri e con il loro insediamento, un inevitabile grande impatto ambientale e comunque un uso speculativo, una imposizione di prezzo ,mentre l’energia , così come l’acqua, non deve avere padroni e ogni ambiente dovrebbe produrre la maggior parte del suo necessario.

sabato 2 ottobre 2010

un nuovo senso della Politica: la visione Municipalista Libertaria

I gruppi di affinità, le democrazia diretta e l’azione diretta potranno difficilmente essere anche solo comprensibili ai milioni di individui che passano la vita in solitudine nei bar o nelle discoteche. Quel che è tragico è che questi milioni di individui hanno delegato il loro potere sociale, anzi hanno ceduto la loro personalità, a politicanti e burocrati che vivono in una dimensione di obbedienza e di comando nella quale, gli individui, sono normalmente tenuti a giocare un ruolo subordinato. Eppure è proprio questa la causa più immediata della crisi ecologica che affligge il nostro tempo - una causa che ha la sua origine storica nella società mercantile che ci sommerge. Chiedere a coloro che sono privi di potere di riconquistare il controllo sulla loro esistenza e ancora più importante che installare un collettore solare, complicato, costoso e spesso incomprensibile, sul tetto della casa in cui abitano. Finché costoro non riacquisteranno un senso di potere sulla vita, finché non creeranno un sistema autonomo di gestione in contrapposizione a quello gerarchico attuale, finché non troveranno nuovi valori ecologici con i quali sostituire i valori sociali del sistema dominante – un processo, questo, che i collettori solari, i mulini a vento e l’orticoltura possono facilitare ma non rimpiazzare - nessuna trasformazione sociale potrà instaurare un nuovo equilibrio con il mondo naturale.
Siamo alla ricerca di una nuova realtà sociale. Una realtà che riporta in primo piano una tematica fondamentale: la tensione comunitaria, ovvero la ricerca di un ambito ( la comunità, il quartiere, il villaggio, la città) dove non solo si lavori insieme ma si viva insieme, dove possa nascere un nuovo concetto di cittadinanza e dove il contadino ritrovi la forza per resistere al potere centrale e al potere dei media.
La politica nella visione municipalista libertaria è partecipazione diretta dei cittadini.
Prima della formazione dello stato nazione, la “politica” aveva un senso differente da quello odierno. Significava la gestione degli affari pubblici da parte della popolazione a livello comunitario, affari pubblici che solo dopo diventarono dominio esclusivo di politici e burocrati. Essa gestiva la cosa pubblica in assemblee cittadine dirette “faccia a faccia” ed eleggeva i consigli che seguivano le decisioni formulate da queste assemblee, che badavano a controllare da vicino le funzioni operative di tali consigli, revocando quei delegati il cui agire era oggetto di pubblica disapprovazione.
Oggi la “politica” è una cruda tecnica strumentale per mobilitare elettori al fine di ottenere obbiettivi preselezionati. I politici trattano la gente da elettorato passivo il cui compito politico è quello di votare ritualmente per i candidati che provengono dai cosiddetti partiti, non per delegati il cui unico mandato è di gestire le politiche formulate e deliberate dai cittadini. I professionisti della gestione statuale vogliono obbedienza, non impegno, distorcendone persino il significato fino a ridurlo ad un atteggiamento da spettatore nel quale il singolo è smarrito nella massa e le masse stesse sono frammentate da atomi isolati, frustrati e impotenti.
Critical Food è democrazia diretta, si oppone alla visione centralista dello Stato proponendo la restituzione del potere alle municipalità, e si pone come obbiettivo l’avvento di una società ecologica, realizzabile attraverso la formazione di una confederazione di municipalità. Il municipalismo libertario tende alla “municipalizzazione” dell’economia, attraverso l’acquisizione dei mezzi di sussistenza da parte della comunità, il controllo dell’economia da parte dell’assemblea dei cittadini, e pone una differenziazione tra la politica e l’amministrazione. Infatti la politica viene portata avanti dalle realtà municipali mentre l’amministrazione dagli organi confederali.
La politica viene portata avanti da una comunità o da un’assemblea di vicini composta da liberi cittadini. L’amministrazione viene gestita da consigli confederali composti da rappresentanti revocabili di quartiere, città e piccoli centri. Se determinate comunità o gruppi di vicini – o dei loro raggruppamenti di minoranza – scelgono di percorrere la loro strada fino al punto di violare diritti umani o di permettere gravi danni ecologici, la maggioranza di una confederazione locale o regionale ha tutti i diritti di impedire questi misfatti mediante il consiglio confederale. Non si tratta di una negazione della democrazia, ma dell’affermazione di un accordo condiviso da tutti per il rispetto dei diritti civili e il mantenimento dell’integrazione ecologica di una regione. Questi diritti e queste istanze non vengono difesi tanto da un consiglio confederale, quanto dalla maggioranza delle assemblee popolari concepite come un’ampia comunità che esprime le proprie intenzioni mediante i propri delegati confederali.
La confederazione è in realtà una comunità di comunità basata su diritti umani e su imperativi ecologici ben distinti.

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