sabato 18 dicembre 2010

Brevi note sulla ristrutturazione del mercato del lavoro in Italia _ parte I



Da diversi anni in Italia è in corso in progetto di ristrutturazione generale del mercato del lavoro presentato ufficialmente come politica di sviluppo economico del Paese. Questo deve passare attraverso la creazione di nuovi mercati per le imprese con la competitività dei prodotti e dei servizi. Competitività  che significa vendita dei prodotti e prezzi inferiori di quelli di altre imprese.
Nel ciclo produttivo l’unica variante su cui incidere per ridurre il prezzo di un prodotto è il costo della manodopera. La competitività passa, pertanto, attraverso la riduzione del costo della manodopera e, cioè, la riduzione dei diritti dei lavoratori. Nelle regole e nei principi economici, infatti, si afferma che i diritti dei lavoratori costano. Non a caso una delle accuse che da diverso tempo viene rivolta ai lavoratori italiani è quella che costano troppo per le imprese.
Il progetto che sta passando in Italia prevede l’eliminazione di tutte quelle cause e, cioè, i diritti dei lavoratori, che non permettono facilmente alle imprese di ridurre il costo del lavoro. L’obbiettivo è l’abolizione totale delle garanzie retributive e della stabilità del posto di lavoro.
Ciò sta avvenendo mediante la previsione e l’applicazione dell’istituto della flessibilità, che in pratica significa piena discrezionalità del datore di lavoro nell’instaurazione, nell’esecuzione e nella estinzione del rapporto di lavoro, sottoponendo i lavoratori a qualsiasi ricatto. In sostanza, legalizzazione del lavoro nero.
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L’instaurazione del rapporto di lavoro, fino a qualche anno fa, doveva avvenire per legge esclusivamente tramite l’Ufficio di Collocamento in modo che l’imprenditore non scegliesse a suo piacimento i dipendenti. Scelta che avrebbe comportato la ricattabilità sul posto di lavoro e l’esclusione dall’assunzione in anticipo dei lavoratori conosciuti come sindacalizzati o perché semplicemente in precedenti rapporti avevano proposto “vertenza” contro il datore, una causa davanti al Giudice del Lavoro.
L’imprenditore doveva assumere i lavoratori avviati dal collocamento in base ad una graduatoria trasparente per soddisfare la sua esigenza di manodopera e ciò indipendentemente dalla personalità del lavoratore (sesso, razza, religione, appartenenza politica, sindacale, ecc.).
Con il pacchetto Treu del 1997 prima e con la legge Biagi del 2003 poi, il collocamento è stato abolito e l’imprenditore può assumere a sua discrezione e piacimento.
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La retribuzione minima contrattuale, finora individuata in quella prevista dai singoli contratti collettivi nazionali, sarà abolita (riforma dell’art. 36 della Costituzione). Saranno altresì aboliti tutti gli istituti collaterali alla retribuzione. Quindi abolizione della gratifica e delle mensilità aggiuntive (13ma e 14ma), del T.F.R. (liquidazione), delle ferie e dei permessi retribuiti, l’astensione durante la gravidanza e la maternità, l’assicurazione previdenza e contro le malattie e gli infortuni, e tutte le altre indennità e garanzie.
La retribuzione sarà stabilita unicamente dal datore di lavoro e sarà onnicomprensiva. Con quanto percepito il lavoratore dovrà stipulare, se vorrà, contratti personali assicurativi per la pensione, la malattia, gli infortuni. Se vorrà metterà soldi da parte per pagarsi la sospensione feriale, i giorni non lavorati, i periodi di malattia, ecc.  Altrimenti non percepirà nulla in quanto l’unico effetto scaturente dal rapporto di lavoro, cioè, l’unico diritto che gli rimane, è la retribuzione mensile decisa dal datore.
Dal punto di vista giuridico, nessun lavoratore potrà più proporre una causa di lavoro per differenze retributive, in pratica nessuno potrà fare vertenza al padrone. La paga mensile corrisposta al lavoratore costituirà per il datore l’unico costo della manodopera (abolizione della differenza tra costo lordo e costo netto). Ciò faciliterà non solo i programmi dell’azienda sul costo del prodotto, ma anche la commerciabilità dell’azienda stessa. Nel frattempo di una esplicita abrogazione dell’art. 36 Cost. e della contrattazione collettiva, sono state già avviate delle riforme parziali in tal senso.
A partire dagli anni novanta, sono state varate delle norme che hanno permesso la riduzione della retribuzione minima e l’abolizione delle garanzie retributive e di stabilità.
Con accordi sindacali sulla “flessibilità salariale” viene, di fatto, creata una normativa secondo la quale i lavoratori possono essere retribuiti al di sotto dei minimi salariali. Ciò è avvenuto e avviene con la stipulata delle cosiddette “clausole aggiuntive” (il settore tessile è stato tra i primi ad esserne investito). Stesso risultato viene ottenuto con gli accordi sindacali provinciali, nonché con gli “accordi gradino” e “salari di ingresso” che prevedono la riduzione di un terzo dei minimi salariali.
Si pensi, ancora, ai contratti d’area, ai patti territoriali, ai lavoratori socialmente utili (legge “Bertinotti”), ai lavoratori coordinati ed, oggi, a progetto (legge Biagi) che prevedono una retribuzione inferiore ai minimi contrattuali.
Non va trascurato l’effetto sui salari dall’introduzione della moneta unica. Con l’avvento dell’euro nel 2002 il costo della vita è raddoppiato. Un prodotto che prima costava 10 mila lire è immediatamente passato a costare 10 euro e, cioè, 20 mila lire. Tale trasformazione, però, non è avvenuta con la retribuzione il cui cambio è stato adattato con precisione. Il salario di 2 milioni di lire non è stato quantificato in 2 mila euro ma in mille euro. In pratica, con l’avvento dell’euro è stato operato il dimezzamento degli stipendi.
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La garanzia della stabilità del rapporto di lavoro è costituita dal fatto che al momento in cui viene stipulato un contratto di lavoro individuale, esso deve intendersi sempre a tempo indeterminato. Solo in rare eccezioni, comunque tassativamente previste dalla legge, sono previsti contratti a tempo determinato, come, per esempio, lavori stagionali, lavori per singoli spettacoli. Inoltre il posto di lavoro è garantito dalla sua costanza in quanto il datore non può licenziare il lavoratore se non per giusti e provati motivi in assenza dei quali il lavoratore ha diritto di ritornare al lavoro.
Tale garanzia di stabilità e costanza del posto di lavoro non esisterà più. Il datore di lavoro potrà stipulare senza nessun ostacolo contratti a tempo determinato (anche di un anno, di un mese o di una settimana alla volta). In tal senso è stato emanato il D. lgs. n. 368/01 prima e la L. 133/08 poi, che liberalizza il contratto a termine anche per l’attività ordinaria dell’impresa ed abolisce il divieto sancito dalla legge n. 230/62. Il contratto a termine, infatti, era vietato in quanto palesemente ricattatorio nei confronti del lavoratore. Già con la legge n. 56 del 1987, il divieto era stato attenuato poiché si dava possibilità ai sindacati tradizionali scelti dal datore di lavoro (CGIL, CISL e UIL) di derogare al divieto mediante la previsione nei contratti collettivi dell’apposizione del termine a tutti i settori e lavorazioni.
Al datore di lavoro verranno riconosciute maggiori ragioni e possibilità di soppressione del posto di lavoro anche prima della scadenza stessa del contratto a tempo indeterminato. Secondo la riforma del giurista Pietro Ichino, il datore di lavoro ha maggiori libertà di licenziamento e nel caso della sua ingiustizia il lavoratore non avrà più diritto di ritornare al posto di lavoro ma solo ad un minimo risarcimento danni, tra l’altro posto non a carico del datore di lavoro ma dello Stato, quindi sulla tassazione delle proprie retribuzioni.
In sostanza sarà ripristinato per tutti il licenziamento ad nutum. I continui attacchi all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ne sono una dimostrazione. L’istituto della flessibilità – che è la causa della precarietà –  è stato introdotto in Italia in forma più esplicita già nel 1990 con la legge n. 428, la quale consente alle imprese di operare o licenziamenti liberamente e senza troppi problemi. L’art. 47 di tale legge risponde ad una logica di flessibilizzazione del rapporto di lavoro derogatoria rispetto alla disciplina contenuta dell’art. 2112 c.c.
Secondo l’art. 2112 c.c., quando un’azienda viene ceduta, il rapporto di lavoro continua ad i lavoratori non possono essere licenziati. In base alla legge 428, invece, le aziende che si dichiarano in crisi e cambiano solo il nome possono licenziare liberamente ed assumere nuovo personale a diverse condizioni, peggiorative, naturalmente. È quanto avvenuto con il caso Alitalia nel 2008, già sperimentato dalla Fiat Hitachi nel 1992.
Presso la Corte Europea di Lussemburgo esistono già ulteriori proposte volte a supportare l’anzidetta normativa ed affinché  le aziende abbiano la concreta possibilità di licenziare senza alcun problema.
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Parimenti è stato abolito il divieto di riduzione dell’orario di lavoro, oggi il part time è stato liberalizzato con la legge Biagi, sottoponendo a ricatto i lavoratori che hanno necessità di conseguire il salario minimo.
Il livello di sfruttamento della manodopera, indicato come produttività, è stato aumentato grazie al D. lgs. n. 66/03 con il quale è stato abolito il limite massimo dell’orario di lavoro giornaliero.
In seguito alle giornate del Primo Maggio e dell’8 Marzo, la comunità internazionale del secolo scorso aveva dovuto accogliere l’istanza di fissazione del limite massimo del lavoro giornaliero in otto ore. Tale indicazione è stata recepita dall’ordinamento italiano del governo fascista con Regio Decreto L. n. 692/23. Con successivi interventi veniva limitato l’orario massimo del lavoro settimanale in 40 ore con divieto eccezionalmente derogabile del lavoro straordinario. La motivazione principale del limite dell’orario ad otto ore al giorno consisteva nel rimedio ai numerosi incidenti anche mortali sul lavoro spesso causati dalla stanchezza, dalla faticosità protratta e dalla mancanza di lucidità.
Ora, dal 2003, il limite stabilito da una legge fascista è stato abolito ed il lavoratore può essere costretto a svolgere un orario di lavoro ordinario di dodici ore al giorno se full time e di sedici ore al giorno se part time. Con l’accordo del 23 luglio 2007 è previsto di poter richiedere le sedici ore al giorno anche per i lavoratori full time.
Non è sganciata dall’orario di lavoro la questione dei ritmi e dei tempi di lavoro. In diversi convegni tenuti dalla Confindustria viene ribadito il concetto di retribuire solo il tempo effettivo di lavorazione, escludendo mini pause, anche di qualche minuto. Sempre secondo la Confindustria, deve essere preferito il lavoratore che impiega sempre minor tempo di lavorazione rispetto ad un altro lavoratore. Questa concorrenza tra lavoratori e aumento indeterminato dei ritmi di lavoro viene chiamata produttività che la Confindustria vuole inserire nei criteri di scelta dei licenziamenti collettivi ex legge 233/91 in maniera preminente ai carichi famigliari, anzianità e mansioni.


da "Lavoro: che fare?" di Giovanni De Francesco

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