lunedì 1 novembre 2010

Il lavoro senza pena_ da "Il lavoro attraente" di Camillo Berneri


«Ho veduto il fabbro al lavoro, dinanzi alla aperta voragine della sua fucina. Aveva le mani sporche ed era sudicio come un coccodrillo. 


«I vari lavoratori che maneggiano lo scalpello godono essi più riposo che il contadino? — Il loro campo è il legno che intagliano. Ed essi lavorano al di là della loro giornata; perfino di notte la loro casa è illuminata — ed essi vegliano...  


«Lo scalpellino lavora le pietre più dure. — Quando egli ha terminato di eseguire i comandi ricevuti e le sue mani sono stanche, riposa egli forse? — Egli deve essere al cantiere quando sorge il sole, anche se ginocchia e schiena minacciano di spezzarsi. 


«Il barbiere esercita l'opera sua fino a notte inoltrata. — Per potere mangiare un boccone di pane deve correre di casa in casa alla ricerca dei suoi clienti. 


«A che tanta fatica per riempirsi appena lo stomaco?


«E il tintore? — Le sue mani puzzano: hanno l'odore del pesce imputridito. — Gli occhi si chiudono dal sonno, ma le sue mani non hanno tregua nell'apprestare le vesti dai bei colori. Egli odia il panno, ogni sorta di panno. 


«Il calzolaio è molto infelice e si lagna continuamente di non aver da rodere che il suo cuoio. 


«Lavorano, lavorano tutti. Ma avviene come del miele: lo mangia solo chi lo raccoglie.»
Questa poesia, che data dal XIV secolo avanti Cristo e descrive le condizioni degli operai sotto il regno di Ramsete II d'Egitto, esprime un lamento che continua attraverso i secoli. Il lavoro, nelle società schiaviste, è una maledizione. Ma anche al di fuori della costrizione servile esso è una pena. La ripugnanza condizionale del pastore fattosi contadino ed artigiano, per il lavoro, si riflette nel dogma religioso del lavoro come conseguenza e come pena di un errore commesso dalla prima coppia umana.
La ripugnanza delle società pastorizie e guerriere per il lavoro conduce a fare della donna un «animale domestico» e dello schiavo il «lavoratore tipo». Per lo schiavo il lavoro non è che pena.
Lo schiavo negro che disse ad un viaggiatore: «La scimmia è molto intelligente e potrebbe parlare.
Se non lo fa, è perché non la si forzi a lavorare», esprimeva l'attitudine del lavoratore incatenato al lavoro servile.
Le antiche mitologie presentano il coltivatore come un reprobo scontante un peccato di ribellione.
Adamo, universale progenitore, è l'angelo caduto dal paradiso dell'ozio all'inferno del lavoro.
Per la morale cristiana il lavoro è imposto da Dio all'uomo come conseguente pena del peccato originale. Il Cattolicesimo antico e quello medioevale nobilitano il lavoro specialmente come espiazione. Anche per la Riforma il lavoro fu «remedium peccati», benché Lutero e Calvino superassero San Tommaso, preannunciando la concezione moderna del lavoro come dignità, concezione abbozzata dai maggiori pensatori del Rinascimento.
L'adattamento abbrutente e la morale piccolo-borghese propria dell'artigiano, del figlio d'artigiani fattosi operaio di officina e del contadino urbanizzato fecero sì che gli schiavi dell'industria non avessero profonda coscienza del giogo capitalista e della decadenza della loro personalità. Zolà, in «travail», ha ben individuato e dipinto il tipo dell'operaio incallito nel cervello, che concepisce il padrone come indispensabile datore di lavoro e lo serve con canina fedeltà, che diserta le lotte dell'emancipazione, che guarda con misoneista ostilità ai ritrovati del progresso, che considera la schiavitù del lavoro con una fatalistica passività che degenera in una specie di masochismo.
A «vedere» la propria schiavitù il proletariato fu condotto dalla letteratura socialista, impietosita e sdegnata.
Lo sviluppo dell'industrialismo ci è descritto con colori cupi da quanti lo hanno seguito guardando all'uomo e non alla cassaforte.
Heine, in «Che cosa è la Germania», parla dell'Inghilterra come di un «abominevole paese, dove le macchine funzionano come uomini e gli uomini come macchine».
Marx ed Engels parlano della vita dei lavoratori del loro tempo come di una vita infernale.
Marx scrive nel «Capitale»:
«Nella sua passione cieca, nella sua ghiottoneria di lavoro straordinario, il capitale sorpassa non soltanto i limiti morali, ma anche l'estremo limite fisiologico della giornata di lavoro. Esso usurpa il tempo che esigono la crescita, lo sviluppo ed il mantenimento del corpo in buona salute. Esso ruba il tempo che dovrebbe venir impiegato a respirare l'aria libera ed a godere della luce del sole.
Esso lesina sul tempo dei pasti e l'incorpora, tutte le volte che lo può, al processo stesso della produzione, in modo che il lavoratore, ridotto a semplice strumento, si vede fornire il nutrimento come si fornisce di carbone il fornello, d'olio e di sego la macchina. Riduce il tempo del sonno, destinato a rinnovare e a rinfrescare la forza vitale, al minimo di ore di pesante torpore senza il quale l'organismo sfinito non potrebbe più funzionare... Il capitale non si occupa affatto della durata della forza di lavoro. Quello che soltanto lo interessa, è il massimo che può esserne spesa in una giornata.
Egli raggiunge il proprio scopo abbreviando la vita del lavoratore, come un agricoltore avido ottiene dal terreno il più forte rendimento esaurendone la fertilità.»
Engels, a sua volta, rappresentava il capitalista industriale come un feudatario e la fabbrica come una galera: «La schiavitù alla quale la borghesia ha sottomesso il proletariato si presenta in piena luce nel sistema dell'officina. Qui ogni libertà viene a mancare di fatto e di diritto. L'operaio deve essere all'alba nell'officina; se arriva con due minuti di ritardo, corre rischio di perdere la sua giornata. Egli deve mangiare, leggere, dormire su comando. La dispotica campana gli fa interrompere il sonno ed i pasti.»
Il «Manifesto dei Comunisti» (1848) è una filippica contro il feudalismo industriale.
«L'industria moderna ha trasformato la botteguccia del padrone patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente.
«Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire, quanto più l'industria moderna si sviluppa, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne e dei fanciulli.
Le differenze di sesso e di età non hanno più valore sociale per la classe lavoratrice. Non ci sono che strumenti di lavoro, il cui prezzo varia secondo l'età e il sesso.»
Non soltanto Marx ed Engels, ma anche il Lassalle, il Lafargue e tutti gli altri scrittori socialisti insorgono contro la schiavitù industriale, che essi condannano non soltanto come sistema di sfruttamento sociale, ma anche come sistema di abbruttimento umano.
È passato il tempo in cui la giornata lavorativa era di 13 ore e anche di 16 o di 17 ore (come nelle tessiture di Lione), ma perdura quella mostruosità che è l'officina in cui vigono i sistemi della «razionalizzazione del lavoro».
È passato il tempo in cui (come nelle tessiture dell'Ain e della Saone-et-Loire) la giornata lavorativa era di 13 ore e anche di 16 o di 17 ore (come nelle tessiture di Lione), ma perdura quella mostruosità che è l'officina in cui vigono i sistemi della «razionalizzazione del lavoro».
L'atteggiamento degli operai odierni di fronte al lavoro è stato oggetto di inchieste particolari.
Da autobiografie di operai raccolte da Adolf Levenstein (Berlino 1909), risulta l'avversione generale degli operai verso il proprio mestiere quando questo sia monotono. Un tessitore ed un metallurgico esprimono una vera avversione per il proprio lavoro. In un'altra inchiesta dello stesso autore (Monaco 1912), l'avversione degli operai per il loro lavoro è ancora più evidente. Un meccanico scrive: «Quando suonano i rintocchi della campana, io mi precipito come un pazzo alla porta della fabbrica». Un tornitore: «È terminato il lavoro. Tutto in me si distende e si solleva. Vorrei lanciare urla di gioia». Un altro operaio: «Debbo impormi di prendere interesse al mio lavoro, e pure mi è impossibile. Un altro: «Innanzi ad ogni nuovo giorno di lavoro sento crescermi dentro un nuovo orrore.
Io non posso immaginarmi come sopporterò dieci ore di questo martirio». Un metallurgico: «Io non prendo nessun interesse al mio lavoro, e se nei giorni festivi scorgo i camini della fabbrica, sento come se mi si ricordasse qualche cosa di sconveniente.» E questa orribile sentenza di un altro operaio: «Il lavoro non mi procura nessun piacere. Io vado al lavoro come andrei alla morte» (pag. 54). Un tessitore: «Puramente e semplicemente odio il mio lavoro».
Arturo Labriola riassume così i risultati di quell'interessantissima inchiesta:
«Il lavoro come tale non suggerisce nulla alla coscienza operaia. Per l'operaio, esso non è che pura esecuzione; ed esecuzione di un frammento e di un franamento d'una frazione di un piano.
Quest'ultimo e le linee direttive del lavoro, nulla hanno a che vedere con l'operaio. Essi non interessano se non l'imprenditore e gli elementi direttivi della fabbrica, i soli sui quali possano veramente esercitare una qualsiasi azione. Nella fabbrica ad alto rendimento (taylorizzata e fordizzata), l'operaio non capisce nemmeno più a che cosa serve il suo lavoro; certo egli sarebbe del tutto incapace di riconoscere, nel prodotto, la parte che vi ha contribuito il suo lavoro. Dunque, nulla, o solo fastidio e monotonia, può il lavoro suggerire all'operaio; e meglio per lui, quando l'automatizzarsi della sua funzione produce in lui una così radicale ottusità, da fargli dimenticare lo stesso peso del lavoro.»
Il Labriola, com'è costume suo, proprio dei pessimisti, generalizza; ma quello che egli dice vale certamente per la maggioranza degli operai impiegati nelle grandi industrie. Ho sotto gli occhi una raccolta di poesie di operai francesi, inglesi, americani, ecc. e tutte ripetono lo stesso lamento: il succedersi delle interminabili giornate, la stanchezza che annienta il pensiero, il desiderio di evasione dalla vita quotidiana, lo spavento che dà il pensiero che tutta la vita sarà come quella di ieri e di oggi. Al sistema del lavoro a catena, proprio dei reparti montaggio, si sono aggiunti i sistemi di fissazione dei cottimi che generalizzano l'automaticismo del lavoro industriale.
Si aggiungano alla meccanizzazione dell'operaio gli infortuni sul lavoro, che vanno aumentando, spargendo nelle officine, nelle miniere, nei cantieri un senso di tristezza.
Il lavoro industriale odierno è inumano. È un Moloch che schiaccia con la noia e con la fatica, che spreme il lavoratore per sputarlo via precocemente invecchiato, che lo getta sul lastrico o lo incatena in una servile dipendenza, che lo ferisce, quando non lo stroppia o l'uccide.
L'operaio ama fin troppo il proprio lavoro. Vi è ragione di meravigliarsi che siano così pochi coloro che evadono dalle galere dell'industria mediante il banditismo, il vagabondaggio, o in altro modo. Ed è umiliante che siamo così pochi coloro che con lo sciopero, con il sabotaggio e con altri metodi di lotta cerchino far saltare l'altare di Mammona.
Tuttavia il proletariato avanza. È una marcia lenta e piena di soste, ma la generazione che sorge la renderà sempre più continua, sempre meno lenta, sempre più sicura.
All'officina che hanno sotto gli occhi oppongono l'officina «ideale»; che sarà l'officina «attuale» in un non lontano domani.

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