domenica 7 novembre 2010

Dialettica di Natura e Cultura_ introduzione al pensiero sociale di Reclus



Reclus merita d’essere ricordato per i suoi colossali contributi scientifici in molti campi, ma il suo più duraturo retaggio intellettuale è il contributo dato allo sviluppo di una visione ecologica del mondo ed in particolare al pensiero ecologico-sociale.
È stato più volte osservato che alcune concezioni dell’anarchismo sono state divergenti rispetto al filone principale del pensiero sociale e della pratica occidentali nell’essere in qualche modo più consapevoli del posto occupato dall’umanità nel mondo naturale. È vero che la tradizione anarchica è stata spesso fortemente influenzata, se non addirittura distorta, dall’alienazione umana rispetto alla natura e dalla spinta umana a dominare la natura. Tuttavia l’anarchismo è riuscito meglio di altre ideologie a scoprire le radici di quell’alienazione, a cominciare a vedere oltre il progetto di dominio e a tentare di ricollocare l’umanità nel suo giusto posto in seno alla natura. Reclus ha dato un contributo formidabile ad introdurre questa prospettiva ecologica nel pensiero anarchico.
È degno di nota che la dottrina anarchica più evoluta alla fine del diciannovesimo secolo fosse profondamente influenzata dalla geografia sociale, così come buona parte del più significativo pensiero anarchico alla fine del ventesimo secolo sia stato ispirato dall’ecologia sociale. Pur se questo parallelo storico viene occasionalmente osservato, la connessione che viene comunemente fatta è tramite un’analisi superficiale di Kropotkin come precursore dell’anarchismo ecologico. Pochi hanno capito che Reclus, ben più di Kropotkin, ha introdotto nel pensiero anarchico molti dei temi che più tardi si evolveranno in ecologia sociale. In realtà Reclus – quasi un secolo fa – non si limitò a sfiorare molti temi socio-ecologici importanti, ma li affrontò con un notevole livello di sofisticazione teoretica.
Béatrice Giblin, nel suo articolo Reclus: un écologiste avant l’heure? (Reclus: un ecologista in anticipo sui suoi tempi?), sostiene che Reclus ebbe una «sensibilità ecologica globale che morì con lui per quasi mezzo secolo». Questa drastica affermazione può nondimeno essere vista addirittura come un understatement.
La prospettiva ecologica sviluppata da Reclus, specie nella sua opera culminante, L’Homme et la Terre, in realtà scomparve dal pensiero sociale per quasi un secolo e non riemerse nel discorso ufficiale che verso la fine degli anni Settanta di questo secolo, in risposta ad una crescente consapevolezza della crisi ecologica da parte dell’opinione pubblica. La tematica ecologica è rimasta un filone sotterraneo del pensiero e della pratica anarchica e utopista, specie nell’opera di gruppi comunitari come la School of Living. E tuttavia anche in quel pensiero anarchico ed utopico non è diventata centrale nella discussione teorica finché le idee di Bookchin non hanno cominciato ad acquisire crescente influenza a partire dagli anni Sessanta.
Reclus inizia il primo volume del suo magnum opus con l’epigrafe: «L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa». In questo concetto c’è tutto il messaggio di Reclus: l’umanità deve giungere a capire la sua identità d’auto-coscienza della Terra e deve così completare il processo storico di sviluppo di questa coscienza. In realtà, quel che egli propone è un progetto etico di presa di responsabilità, tramite una mutata pratica sociale, del nostro posto nella natura e un corrispettivo progetto teoretico di migliore comprensione di quel nostro ruolo e di smascheramento delle ideologie che lo occultano. Sulla base di questo approccio, egli cerca di spiegare lo sviluppo della società umana nella sua interazione dialettica con il resto del mondo naturale e sviluppa una teoria del progresso sociale in cui l’autorealizzazione umana può conciliarsi in un tutt’uno con il rigoglioso prosperare del pianeta.
Reclus ebbe sempre un forte senso dell’intrinsecità dell’umanità nella natura. Egli descrive eloquentemente la «natura umana» come espressione della creatività della Terra e della nostra parentela con tutte le forme di vita. «Noi siamo», dice, «i figli della ‘madre benefica’, come gli alberi della foresta e le canne del fiume. È da essa che noi deriviamo la nostra sostanza; essa ci nutre con il suo latte materno, dà aria ai nostri polmoni, ci dà tutto ciò grazie a cui viviamo, ci muoviamo, insomma esistiamo ». Attraverso tutti i suoi lavori egli rimane fedele a quest’approccio olistico, integrativo. Anche quando i suoi studi diventeranno sempre più tecnici e minuziosamente dettagliati, non abbandonerà mai questo suo precoce approccio nei confronti della natura un po’ romantico, poetico e finanche spirituale.
In effetti, la fusione di razionalità ed immaginazione, che sono state spesso viste come antagonistiche, è una delle dimensioni più singolarmente notevoli del pensiero di Reclus.
Conseguentemente, egli cerca di integrare una comprensione teorica e scientifica della natura con la consapevolezza delle implicazioni pratiche di tale comprensione. Il che è solo un altro modo di dire che egli costantemente si interroga sulla «politica della natura auto-cosciente». La sua geografia sociale è pertanto una geografia del tutto politica. Yves Lacoste, uno dei geografi francesi contemporanei che più si sono dati da fare per risvegliare l’interesse per Reclus, sostiene che quest’ultimo, pur essendo «il più grande geografo francese», è stato «completamente incompreso» a causa del «problema epistemologico centrale della geografia accademica: l’esclusione del politico».
Lacoste trova bizzarro che il recente dibattito sulla geografia sociale «dimentichi» sistematicamente la massiccia opera in sei volumi di Reclus, di cui la geografia sociale è il «filone principale ». Questa situazione ricorda in parallelo l’accoglienza fatta oggi all’ecologia sociale. Essa è benvenuta quando esprime l’edificante idea che la natura è una unità-nella-diversità, e talora viene perfino lodata per il fatto di proclamare che i problemi ecologici sono connessi ai problemi sociali, ma perde rapidamente credibilità per i più quando comincia ad analizzare la natura di quella connessione... ed osa addirittura trovare le radici della crisi nell’esistenza dello Stato centralizzato e dell’economia capitalistica.
Questi paralleli non dovrebbero stupire, perché le connessioni tra l’ecologia sociale e la geografia sociale di Reclus sono per molti versi impressionanti. Secondo l’analisi di Bookchin, uno dei principi interpretativi fondamentali dell’ecologia sociale è l’idea che ogni fenomeno sia, in una prospettiva dialettica, l’intera storia di quel fenomeno. Ebbene, Reclus utilizza questo principio come guida della sua geografia sociale quando osserva che «la società attuale contiene in sé tutte le società anteriori...». Egli applica questo principio anche alla natura umana, quando si dice d’accordo sul fatto che «l’ontologia ricapitola la filogenia». Nella sua versione di questa teoria, «l’uomo rammenta nella sua struttura tutto ciò cui i suoi antenati sono sopravvissuti attraverso lunghe fasi epocali. Egli in realtà riassume in sé tutto ciò che l’ha preceduto nell’esistenza, così come, nella sua vita embrionale, egli presenta successivamente varie forme di organizzazione più semplici di quella che gli è propria».
C’è dunque per Reclus una continuità evolutiva sia nei fenomeni naturali sia in quelli sociali, nella quale gli stadi precedenti si conservano in quelli successivi. Il che non implica tuttavia alcun genere di prospettiva strettamente deterministica. Piuttosto, la nostra conoscenza della continuità e dei fattori determinanti viene vista da Reclus come un contributo ad un’accresciuta libertà derivante da un’attenta conoscenza della natura delle cose. È interessante il fatto che Reclus non esita a riconoscere una certa continuità tra la «monarchia» nelle società umane e la «monarchia» in seno ad alcune specie animali, com’è il caso – ad esempio – di alcune scimmie che presentano individui dominanti o – come li definisce lui – «capi riconosciuti». Bookchin, al contrario, osserva che molti dei tratti delle gerarchie umane sono inesistenti in quelle comunità animali descritte come «gerarchiche». Non c’è motivo di credere che su questo punto Reclus dissentirebbe minimamente. E tuttavia egli non vede l’uso della terminologia relativa alla gerarchia sociale come una minaccia ai suoi principi anarchici ed ai suoi sogni per l’umanità. Dal suo punto di vista, quella terminologia semplicemente attira l’attenzione su una certa continuità tra i fenomeni, ma non implica che vi sia un qualche genere di gerarchia inscritto necessariamente nell’umanità. La gerarchia sociale è solo una delle possibili opzioni che può essere rifiutata se gli esseri umani decidono di organizzarsi in altri modi.
Benché Reclus creda che si possa imparare molto sui fenomeni presenti tramite lo studio di tutte le forme di vita, la sua precipua attenzione è rivolta a scoprire la natura dei fenomeni sociali tramite l’esame della loro evoluzione lungo la storia della società umana. Tale analisi, egli spera, può condurci a comprendere la struttura e le contraddizioni della società attuale.
Nella sua analisi delle società moderne Reclus scopre che ognuna di esse «si compone di classi sovrapposte, che rappresentano in questo secolo tutti i secoli precedenti con le loro corrispondenti culture intellettuali e morali», e che, quand’esse vengono «viste a contatto l’una con l’altra le situazioni estreme presentano uno scarto sorprendente». In questa sua ricerca sulle classi Reclus cerca di rivelare talune fratture nella struttura sociale normalmente nascoste dalle ideologie dominanti. Si può così mostrare come l’eredità nascosta del dominio sociale si rilevi nei conflitti sociali contemporanei.
Reclus ritiene che, per superare quel retaggio di dominio, l’umanità debba sviluppare una coscienza critica della sua evoluzione storica passata. Tale consapevolezza fornirebbe la base su cui creare coscientemente una storia futura. Egli concettualizza questo processo come il tentativo dell’umanità «di realizzare se stessa in una forma che abbraccia tutte le epoche».
Quando la specie umana giunge a vedersi come parte di un tutto storico e geografico, essa consegue insieme l’autocoscienza e la corrispondente libertà. Ci è consentito «liberarci dall’angusta linea di sviluppo determinata dall’ambiente in cui viviamo e dallo specifico retaggio della nostra razza. Di fronte a noi si disegna una rete infinita di percorsi paralleli, divergenti e intersecantesi che altri segmenti dell’umanità hanno seguito».
Se una volta la prospettiva ecologica si identificava con un’enfasi sull’armonia, sull’equilibrio e sull’ordine, il più recente dibattito di teoria ecologica ha messo in discussione quel modello dominante (vale a dire «eco-sistemico»). In realtà, diversi studiosi, influenzati dal pensiero post-moderno, hanno fatto proprio l’estremo opposto, vedendo in natura solo disordine e caos. Molto tempo fa Reclus sosteneva una posizione assai più saggiamente dialettica che evita gli opposti estremismi: quello statico e quello caotico. In ciò la sua prospettiva è del tutto coerente con quella dell’ecologia sociale. C’è veramente, secondo Reclus, armonia ed equilibrio in natura, ma esse operano in un contesto che presenta anche una tendenza al contrasto ed allo squilibrio. Egli osserva che «quando le piante o gli animali, compresi gli esseri umani, lasciano il loro habitat naturale e s’intromettono in un altro ambiente, l’armonia della natura ne viene temporaneamente disturbata»; tuttavia, questi nuovi elementi muoiono o s’adattano alle nuove condizioni, dando così un contributo alla natura in quanto vanno ad aggiungere un qualcosa di nuovo alla meravigliosa armonia della Terra e di tutto ciò che germoglia e cresce sulla sua superficie. L’equilibrio della natura è così un equilibrio insieme d’ordine e di disordine.
La concezione reclusiana di natura, fortemente olistica, suona molto simile all’analisi ecologica contemporanea. Un esempio è il suo approccio alla funzione della foresta nello stato generale di salute ecologica. Egli lamenta l’azione sconsideratamente distruttiva dei «pionieri» in Nord e in Sud America, i quali bruciavano enormi estensioni di foresta antica per fare spazio all’agricoltura, «e nel contempo bruciando animali, offuscando il cielo con il fumo e lanciando le ceneri al vento per centinaia di chilometri». Egli osserva che non solo questo modo di operare è miope da un punto di vista economico, ma che la vera grande perdita è che viene ad essere ridotto considerevolmente il ruolo che le foreste hanno «nell’igiene generale della Terra e delle specie viventi», un «ruolo essenziale». Reclus usa un immaginario fortemente organicistico nel presentare un modello positivo di buona salute eco-sistemica. Della Terra, dice, «si dovrebbe prendersi cura come d’un grande corpo, il cui ritmo di respiro è regolato dalle foreste, secondo un metodo scientifico; esso ha i suoi polmoni, che dovrebbero essere rispettati dagli esseri umani, poiché la loro stessa igiene dipende da essi». Egli ricorre spesso anche a immagini estetiche per esprimere la stessa visione organicistica della natura, come quando descrive la Terra come «ritmo e bellezza espressi in un’unità armoniosa».

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