venerdì 7 gennaio 2011

Brevi note sulla ristrutturazione del mercato del lavoro in Italia _ parte III


Completano il quadro l’abolizione dei diritti sindacali e della giustizia del lavoro.
Il diritto di sciopero è continuamente compromesso e limitato. Il reato di sciopero previsto dalla legislazione fascista non è mai stato abolito.
La formazione e l’attività sindacale di base, comunque diversa dai sindacali confederali, CGIL, CISL, e UIL, cosiddetti triplice, è impedita e discriminata. C’è un ritorno alle corporazioni fasciste con cui i sindacati della triplice, unici riconosciuti, eseguono le indicazioni del governo ed espletano di fatto un’attività di servizi in favore delle imprese.
L’ordinamento riconosce il diritto agli imprenditori di scegliersi i sindacati,  anche se non rappresentano alcun lavoratore, per le trattative ed i rinnovi contrattuali.
Tali sindacati  non fanno altro che ratificare le decisioni dell’imprenditore, senza affermare le richieste dei lavoratori.
Anche per questo, da oltre venti anni i sindacati della triplice registrano un grave difetto e crisi di rappresentatività che, però, non è considerato dall’ordinamento.
La formazione di sindacati alternativi alla triplice e più rappresentativi dei lavoratori è continuamente ostacolata ed impedita dall’ordinamento anche mediante il mancato riconoscimento dei diritti sindacali sul posto di lavoro che, in pratica, significa bloccare ogni attività sindacale, impedire, quindi, la nascita di nuove associazioni.
L’ordinamento riconosce ai sindacati compiacenti con il datore trattamenti di miglior favore creando una disparità tra sindacati. In sostanza, al sindacato che sostiene i diritti dei lavoratori viene impedito ogni diritto di azione ed agibilità sindacale.
La riforma del diritto dei lavoratori sta passando anche attraverso la “non effettività del diritto” e, cioè, la difficoltà se non l’impossibilità di esercitare il diritto negato al lavoratore.
I tribunali del lavoro sono continuamente colpiti da politiche di svuotamento con la riduzione del personale, dei mezzi, delle risorse e delle strutture. Ciò comporta inevitabilmente l’allungamento dei tempi processuali e l’alterazione della qualità del processo con effetto negativo solo nei confronti del lavoratore visto che è la parte interessata a ricorrere al giudice del lavoro. Per il mancato funzionamento dell’ufficio giudiziario, il lavoratore non può ottenere giustizia di un diritto violato.
La mancanza di giustizia del lavoro comporta l’aumento delle violazioni di legge e dei diritti da parte del datore di lavoro visto che possono facilmente rimanere impunite.
Si assiste ad orientamenti giurisprudenziali sempre più restrittivi sul riconoscimento dei diritti e delle ragioni dei lavoratori. Al lavoratore è richiesta una prova rigida se non diabolica per dimostrare la violazione dei suoi diritti. È orientamento giurisprudenziale, tra l’altro, non punire il datore di lavoro che demansiona il lavoratore il quale difficilmente potrà ottenere un risarcimento ed il ritorno alle proprie mansioni anche in caso di vittoria del giudizio.
Il lavoratore non è solo parte debole nel rapporto di lavoro ma lo è anche nel processo in cui non può disporre di mezzi e prove al pari del datore. Nonostante le difficoltà processuali, l’ordinamento ha previsto l’introduzione di costi e la condanna alle spese a carico del lavoratore. L’obiettivo è quello di scoraggiare il lavoratore e proporre una causa giudiziaria.
Si tende ad esentare i giudici dai loro compiti di controllo e relegarli a funzioni di ratificazione dell’operato discrezionale dei datori di lavoro.
L’introduzione della certificazione del contratto di lavoro con la legge Biagi e del “collegato lavoro” del 2010 ne è una dimostrazione.
Il “collegato lavoro” prevede l’impossibilità di rivolgersi alla Magistratura del Lavoro, organo costituzionale garante di indipendenza ed imparzialità, poiché obbliga i lavoratori a ricorrere alla giustizia privata mediante l’arbitrato le cui decisioni sono frutto dei rapporti di forza della parte più potente e, comunque, mai secondo diritto. Con l’arbitrato il lavoratore non otterrà mai giustizia.
Il “collegato lavoro” prevede, inoltre, la riduzione al minimo delle “pene” in favore dei datori di lavoro in caso di violazione delle norme. Abbiamo visto l’impunità del datore nei casi in cui demansiona il lavoratore. Con la nuova normativa del “collegato”, il datore che si comporta illegittimamente nei confronti del lavoratore subirà insignificanti conseguenze a scapito dei diritti del lavoratore il quale potrà ottenere solo un minimo ed insignificante risarcimento. In questo modo il datore di lavoro può violare la legge – per esempio, assumere con contratti precari, licenziare ingiustamente – correndo il solo rischio di dover pagare una minima somma, mentre il lavoratore perde il posto di lavoro e le retribuzioni.
È in corso la trasformazione del nome stesso della magistratura del lavoro. Prossimamente i giudici saranno chiamati a fare non più i giudici del lavoro, bensì i “magistrati economici”. Saranno, cioè, magistrati sottoposti non alle regole del diritto e ancor meno a quelle a sostegno dei lavoratori, ma alle esigenze dell’economia e del mercato.
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Il governo e il padronato impongono questa politica propagando l’aumento dell’occupazione e la maggiore competitività dei prodotti italiani e minacciando di delocalizzare le aziende in altre parti del mondo (Europa dell’Est, Africa ed oriente asiatico) dove i lavoratori – tra cui bambini – vengono pagati anche con un solo euro al giorno e chi protesta viene anche assassinato.
In sostanza: ci sarà posto di lavoro per tutti; per due soldi ma per tutti.
Sull’abolizione dei diritti dei lavoratori, delle pensioni e della giustizia del lavoro, il capitale italiano sta giocando la propria scommessa anche rispetto ai rapporti con gli altri stati membri della Comunità Europea.
A causa di varie speculazioni subite dal nostro paese da parte dei paesi imperialisti (privatizzazioni, decisioni sul “panfilo Britannia”, tangentopoli, ecc.), non avendo più settori di produzione strategici, il capitalismo italiano cerca attività di profitto con l’offerta di manodopera a basso costo, anche di quella qualificata e specializzata.
 In sostanza propone ai grandi paesi capitalisti (quali U.S.A., Canada, Inghilterra, Francia, Germania ecc.) di non delocalizzare nel paesi del terzo mondo ma in Italia garantendo le stesse condizioni e, cioè, la manodopera a basso costo.
Si tenta di creare in Italia una situazione analoga a quella del sud est asiatico, dell’Africa, dell’Est europeo, dell’America Latina.
Per attuare ciò occorre che i lavoratori italiani non beneficino più dei precedenti diritti ma si accontentino di salari bassi, se non bassissimi, e che non abbiano la possibilità di ricorrere in tribunale. In pratica la possibilità di pagare salari bassi, per il capitalista straniero deve essere una certezza.
Non a caso, con la prospettiva dell’abolizione dei diritti dei lavoratori, delle pensioni e della giustizia del lavoro, si parla già di rilocalizzazione delle imprese dall’estero.
Già negli anni novanta, le riforme in peggio del diritto dei lavoratori veniva motivato con lo scopo di attrarre i capitali stranieri.
Sempre con il medesimo scopo sono motivate le riforme dei nostri giorni. Sono esplicite in tal senso le relazioni del senatore di centro sinistra Pietro Ichino, autore di una generale riforma dei diritti, ben peggiore di quella prospettata dall’ultima iniziativa governativa del marzo 2010, conosciuta come norme sull’arbitrato.
Il giurista Pietro Ichino si spinge oltre all’attrazione dei capitali stranieri e parla di captazione, di creare un motivo di attrazione.
Dietro la lotta alla disoccupazione e le iniziative per lo sviluppo economico si cela l’abolizione dei diritti dei lavoratori.
Le iniziative intraprese dal 1990 ad oggi (legge Treu, Biagi, contratto a termine, arbitrato, ecc.), sono solo misure temporanee e transitorie, necessarie alla graduale attuazione di suddetta abolizione.
L’evoluzione delle riforme del diritto del lavoro non tende a diversificare i vari tipi di rapporto di lavoro (contratto a progetto, a termine, socio cooperativa, compartecipazione, a ritenuta d’acconto, ecc.), giacché si tratta di formulazioni che lasciano il tempo che trovano e che verranno spazzate via non appena si attesterà definitivamente il criterio della flessibilità.
L’esempio può essere dato dalla legislazione “gemella” sulle locazioni. Fino al 1998 venivano stipulati vari tipi di contratto (come, per esempio, uso foresteria, transitorio, seconda casa, ecc.), tutto per eludere la legge sull’equo canone e garantire un canone nero superiore. Nel momento in cui la legge 431/98 ha abolito l’equo canone, il proprietario di casa non ha più l’esigenza di inventarsi e simulare  vari tipi di contratto di locazione. Può legalmente stabilire un canone nero.
Le varie tipologie di contratti di lavoro (progetto, somministrazione, intermittente, a chiamata, a termine, ecc.), sono forme elaborate per eludere tutte le norme poste a tutela del lavoro subordinato, in particolare la retribuzione e la continuità del posto di lavoro. Nel momento in cui si affermerà la legalizzazione del lavoro nero, quindi la flessibilità totale retributiva e di stabilità, non ci sarà più bisogno delle svariate tipologie di lavoro. Al contrario, ci sarà una spinta maggiore alla subordinazione.
È importante discutere delle singole iniziative che i governi approntano quotidianamente, ma è necessario affrontare ed opporsi al progetto globale del capitalismo che prevede l’abolizione totale dei diritti dei lavoratori.

da "Lavoro: che fare?" di Giovanni De Francesco

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