giovedì 22 dicembre 2011

il quadro completo _ da "Il cerchio e la linea" di Tiziana Banini

Inquinamento delle acque e dell’aria, progressiva perdita di fertilità dei terreni, erosione e desertificazione, riduzione del patrimonio forestale e biologico, crescita esponenziale di rifiuti e quant’altro dimostrano che il nostro modo di interagire con l’ambiente è intrinsecamente inadeguato e necessita di una radicale trasformazione. La natura sta mostrando il suo conto, direbbe Barry Commoner (1977), e tutti gli abitanti di questo pianeta, in veste di attori economici, politici, decisionali e di semplici cittadini, sono chiamati ad una seria riflessione sui propri comportamenti individuali e collettivi.
Diviene fondamentale, soprattutto, comprendere le ragioni di questo mancato dialogo tra natura ed esseri umani, superando l’ottica antropocentrica che ha contraddistinto la storia dell’umanità, almeno da quando essa ha maturato le conoscenze scientifiche e tecnologiche tali da alterare profondamente gli equilibri eco sistemici e il rapporto con le altre specie viventi. Altrettanto necessario è diffondere adeguata conoscenza che solleciti consapevolezza circa gli effetti ambientali e sociali dei comportamenti umani, fornendo un contraltare alle tante sollecitazioni sociali, economiche e mediatiche che inducono le persone ad identificarsi soprattutto nel ruolo di consumatori ad oltranza di materia ed energia.
Di ambiente in realtà se ne parla già molto, forse perché si tratta di un argomento che si presta a garantire buone tirature di riviste e giornali o a far lievitare l’audience televisiva, magari ricorrendo a qualche espediente spettacolare. Ma il modo in cui le tematiche ambientali sono affrontate suscita non poche perplessità, poiché quasi sempre si parla di inquinamento piuttosto che di rifiuti senza andare alle effettivi radici, col risultato di proporre soluzioni di facciata e quindi di perpetuare il problema stesso.
(…)
Andare alla radice della questione ambientale significa soffermarsi sulle modalità in cui è stato concepito e praticato il progresso nel corso della storia umana ovvero riflettere sul fatto che gli avanzamenti scientifici e tecnologici hanno progressivamente intrapreso una strada autonoma, slegata dalla natura, centrata sulla razionalità diretta allo scopo piuttosto che al valore e finalizzata a soddisfare le crescenti esigenze dell’unica specie in grado di modificare consapevolmente l’ecosistema e i suoi equilibri (Hösle, 1922).
Proprio dalla metà dello scorso secolo, in coincidenza dell’affermazione del petrolio come fonte energetica di un progetto politico volto a diffondere benessere materiale a tutta la popolazione, secondo quello che Latouche (2003) definisce angelismo liberare , il progresso è stato pensato a vantaggio dell’homo oeconomicus ovvero a generare continui nuovi bisogni individuali materiali e nuovi profitti per le imprese, esasperando lo stretto legame tra quotidianità e capitalismo venutosi a creare ben molto tempo prima (Braudel, 1977).
Da allora, si è dato inizio ad una folle corsa verso l’ultima innovazione da inventare, produrre, consumare, buttare, secondo logiche lineari, dal tutto contrarie a quelle cicliche della natura. Figlie della stessa radice meccanicistica e riduzionistica nei confronti della natura, le economie collettiviste davano vita a sistemi di produzione in cui si poneva forse maggiore attenzione alla questione sociale, ma sfruttando indiscriminatamente risorse e territori, agendo come una sorta di “capitalismo di Stato”, determinando immani guasti ambientali. (…)
Nel frattempo il progressivo distacco dalla natura si è concretizzato anche nelle crescenti capacità di intervento sulla vita e sulla morte, alimentando interrogativi circa i limiti da imporre alla genetica, alla medicina, alla biologia. Di certo questo pianeta non sarebbe abitato da 7 miliardi di persone se non fossero state inventante tecniche in grado di contrastare profondamente la malattia, la morte, l’infertilità. Argomento scomodo per eccellenza questo, ma che va menzionato, non solo per ricordare uno dei motivi principali del cosiddetto sovrappopolamento del pianeta, ma anche, anzi soprattutto, per evidenziare l’approccio meccanicistico che ancora oggi connota le scienze mediche, basate sulle terapie chimiche, fisiche, elettromagnetiche, concentrando l’attenzione sull’organo o la funzione malata, piuttosto che sul significato olistico, simbolico e profondo della malattia. Malattia che è sempre la rappresentazione biologica di uno squilibrio e di una disarmonia, di una perdita di flessibilità e di integrazione con se stessi e con il mondo circostante. (Capra, 2009)
(…) Il paradosso, altro argomento demagogicamente scomodo, è che nei paesi più poveri della terra si interviene con medicinali e alimenti dei Paesi più ricchi, seguendo obiettivi di solidarietà, aiuto e cooperazione, proprio mentre continuano a sfruttare indiscriminatamente le loro risorse, i loro territori, la loro forza lavoro, con la complicità delle élite di potere locali e l’indifferenza dei consumatori globali. Deprivazione di risorse per lo sviluppo da una parte, aiuti umanitari dall’altra: interventi a monte e a valle che nel mezzo lasciano il vuoto, finendo per alimentare il degrado dei territori e delle popolazioni più disperate del pianeta, aumentandone la dipendenza dagli aiuti internazionali, diffondendo modelli culturalii e stili di vita non supportabili localmente che inducono all’emigrazione verso gli eldorado occidentali, anziché lasciare libere quelle popolazioni di utilizzare le loro risorse e di scegliere una propria via allo sviluppo.
(…)
Il distacco degli essere umoni dalla natura si manifesta anche nel modo in cui certi fenomeni naturali sono concepiti e affrontati, il clamore che accompagna il dibattito sul cambiamento climati, la perdita di biodiversità, le calamità naturali, dimostra quanto l’uomo tenda ad addossarsi responsabilità per fenomeni che sono sempre avvenuti nella storia della Terra, molto prima che egli apparisse. La natura ha proprie logiche e dinamiche, che non escludono il verificarsi di fenomeni estremi e improvvisi: terremoti, eruzioni vulcaniche, uragani sono definiti calamità naturali perché distruggono quanto creato dall’uomo, ma per la natura si tratta solo di manifestazioni perfettamente integrate nel suo ordinario procedere; l’uomo non può fare altro che prenderne atto e imparare a conviverci, evitando di subirne conseguenze troppo negative.
Certo, per altri tipi di eventi estremi è diverso: frane ed alluvioni possono effettivamente essere agevolate dall’uomo, ad esempio con la deforestazione o l’utilizzo improprio dei versanti acclivi, e molto può essere evitato (…). Ma anche in questo caso va sottolineato che in natura frane e alluvioni avvengono, indipendentemente dal comportamento umano. Stesso discorso relativamente alla biodiversità: l’uomo può agevolarne la riduzione utilizzando le varietà vegetali e animali più produttive, come fanno l’agricoltura e la zootecnia commerciali, alterando le condizioni ambientali necessarie alla sopravvivenza di determinate piante o animali, prelevando specie ittiche al do sopra dei tempi di riproduzione, uccidendo specie rare e altro ancora. Ma nella lunga storia della Terra è sempre successo che delle specie siano scomparse e che altre si siano evolute, lasciando in vita quelle maggiormente in grado di sostenere le condizioni ambientali di ogni epoca. Anche con i dovuti accorgimenti, pertanto, l’uomo non può impedire che certe specie vegetali e animali scompaiano, com’è nel naturale comportamento dell’ecosistema.
Superare l’ottica antropocentrica e porre al centro dell’attenzione la natura e le sue regole diviene obiettivo fondamentale se davvero si vuole arrivare all’integrazione con  l’ecosistema, così come diviene indispensabile acquisire nelle prassi dei principi di precauzione e di prevenzione (…): evitare qualsiasi intervento umano sull’ambiente di cui non si conoscano gli effetti; valutare i possibili danni di ogni azione, per quanto ci è dato sapere, in via preventiva e non secondo la mera logica ripartiva che ha dominato fino all’avvento del cosiddetto sviluppo sostenibile.
Sotto accusa c’è un intero modo di intendere lo stare al mondo che è configurato sugli aspetti più apparenti e individualisti dell’esistenza, sull’accumulo ad oltranza di ricchezza e materia, su un sistema sociale ed economico “che organizza la produzione al fine di promuovere consumi piuttosto che per soddisfare bisogni”. (Isenburg, 2000)
(…)
L’espansione su scala globale del modello di produzione e consumo occidentale, in termini effettivi o auspicabili, costituisce ulteriore motivo di preoccupazione, anche per la dissipazione progressiva di culture e stili di vita “altri” che si accompagnano a questo processo.
(…)
Andando ancora più alla radice, ciò che sembra essere necessaria è una riabilitazione della dimensione metafisica della natura, l’unica in grado di varcare gli orizzonti del meccanicismo e riduzionismo, di cui è ancora in larga parte permeato il progresso tecnologico, e di affermare l’impostazione teleologica, finalistica, basata su obiettivi intenzionali e integrati con la natura, partendo dal presupposto che l’uomo, a differenza delle altre specie viventi, è sì in grado di modificare consapevolmente la natura, ma anche di proporsi obiettivi che vanno oltre l’immediato, sconfinano nel simbolico, si nutrono di immaginazione e rendono possibile quindi una scelta responsabile tra diverse possibili opzioni (Jonas, 1993).
Il fatto che l’ecosistema terrestre non sia in grado di garantire a 7 miliardi di persone – ma forse nemmeno a 3 – una disponibilità di risorse pari a quella consumata attualmente da una minima parte della popolazione mondiale dovrebbe essere motivo sufficiente per intraprendere un percorso diverso da quello finora seguito (…).

(dall'Introduzione di "Il cerchi e la linea - alle radici della questione ambientale" di Tiziana Banini)

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