domenica 28 novembre 2010

lo Spirito di Rivolta _ Émile Armand


Le “organizzazioni” che si qualificano rivoluzionarie rimproverano agli individualisti antiautoritari di tenersi generalmente in disparte dall’azione rivoluzionaria qual è comunemente intesa: manifestazioni di piazza, incitamenti, sommosse, guerra civile –di non condividere i propositi che muovono i partiti cosiddetti avanzati allorché si accende una scaramuccia tra “borghesi” e “proletari”- di non collocarsi né da un lato né dall’altro della barricata allorché rumoreggia l’insurrezione, e di attendere da semplice spettatore che il conflitto giunga ala fine. Gli individualisti da parte loro affermano che, isolati od associati, la professione delle loro opinioni implica la resistenza, la rivolta allo stato permanente, che l’individualismo incarna in sé lo spirito della ribellione, d’insottomissione, d’irriducibilità nella maniera più profonda, più energica, più durevole, più permanente, più vera, infine.  […]         

È esatto che gli individualisti considerano con precauzione ed esaminano con la più grande attenzione le manifestazioni rivoluzionarie che si producono in seno agli ambienti umani nei quali essi vivono. È esatto altresì che essi non si lasciano abbagliare né dalla facciata esteriore e dalla bandiera che si sventola, né dagli appelli sonori e sentimentali cui ricorrono i condottieri di folle per farsi seguire dai loro greggi. Essi si dimostrano conseguenti alle loro opinioni allorché desiderano sapere, anzitutto, a profitto di chi o di che si produce o si svolge un dato movimento rivoluzionario.

Inoltre a torto si rimprovera loro di nutrire una non so quale ostilità pregiudiziale contro la forza: ad essi che aspirano a rendere forte ciascuna unità umana senza monopolio o privilegio speciale. Per la verità, non è contro la forza, contro l’energia che si erigono gli individualisti; al contrario, è un tratto caratteristico delle loro rivendicazioni il veemente desiderio di vedere l’essere umano affermarsi forte e vigoroso, intellettualmente come moralmente, dal punto di vista fisico come dal punto di vista psichico. Non è contro la forza che essi si pongono, ma bensì contro l’autorità, la coercizione, l’obbligazione, delle quali la violenza è un aspetto, il che è tutto differente.[…]

Gli individualisti sono del parere che una qualunque trasformazione dell’ambiente – sia essa d’ordine intellettuale, etico, economico, politico, od altro – non può o non ha probabilità di prodursi realmente se essa non è preceduta da un’intensa azione di propaganda, destinata  a preparare i componenti dell’ambiente in questione alla modificazione o al rivolgimento che sta per aver luogo ed a metterli così in grado di prendere posizione. In altri termini, gli individualisti non concepiscono un’azione rivoluzionaria senza una preliminare educazione e iniziazione dell’ambiente ove essa dovrà svolgersi […].

Aver compiuta la propria rivoluzione individuale, vuol dire essersi sbarazzati il più e meglio possibile delle influenze che pesavano sul proprio io ed essersi così rivelato a se stesso; vuol dire, una volta liberatosi dal gioco delle influenze ereditarie, dell’educazione e delle tradizioni sociali, o in ogni caso dopo avervi lottato contro, essersi fatta, forgiata, una concezione personale della vita; vuol dire ancora possedere la piena conoscenza delle proprie passioni, dei propri slanci […].

È stato affermato che gli individualisti anarchici negano alla violenza un qualunque valore educativo: che le negano una qualsiasi utilità pratica nella soluzione dei conflitti che pongono di fronte gli uomini o le collettività. L’impiego della violenza nulla risolve: esso è un segno di superiorità bruta, un procedimento assolutamente contro-individualista, poiché richiede l’impiego della autorità fisica. E’ stato ugualmente affermato che la sola forma dia azione rivoluzionaria riconosciuta tale dagli individualisti antiautoritari sarebbe la tattica speciale chiamata comunemente “resistenza passiva”.

La “resistenza passiva” è un atto di ribellione o un’insieme di azioni insurrezionali che si estrinsecano non per mezzo di manifestazioni di piazza né con la sommossa, né con la lotta armata; che, in altre parole, ripudiano il metodo della violenza per affermarsi, e non si basano, in alcun caso, sull’eccitazione superficiale e passeggera delle moltitudini. La resistenza passiva, che si può impiegare per ogni specie di obbiettivi, suppone l’educazione e la iniziazione preliminare di coloro che la impiegano a preferenza di tutte le altre tattiche rivoluzionarie.

Si può, ad esempio, senza innalzare barricate, astenersi da ogni attività, da ogni lavoro, da ogni funzione che implichi il mantenimento o il consolidamento di un dato regime imposto, rifiutarsi di pagare delle imposte o delle tasse destinate al funzionamento di istituzioni e di servizi dei quali si contesta l’utilità e la necessità, dei quali si combatte il concetto informatore stesso: dal dazio consumo alla imposta “del sangue” voluta dalla guerra. Si può rifiutarsi di mandare i propri figlioli alle scuole dello stato il cui insegnamento si giudica tendenzioso, unilaterale, pernicioso alla formazione e allo sviluppo della propria progenitura.

Si può rifiutarsi di utilizzare come medici o come professori coloro che sono tali grazie soltanto ad un diploma ufficiale. Si può rifiutarsi di rispondere ai commissari, ai giudici, ai magistrati delle assisi, dei tribunali, delle corti di giustizia civili, correzionali o criminali. Si può rifiutarsi di obbedire, di conformarsi ad un decreto, ad una legge, ad una ordinanza che si considera come contraria alle opinioni che si professano od alla propria concezione della vita. Si può rifiutarsi di lavorare per un salario che si giudica troppo basso o per un numero di ore quotidiane che si considera troppo elevato. Si può erigersi contro tutte le specie di pretese e di usurpazioni sociali, governative, amministrative, giuridiche, che si considerano tali da portare un colpo decisivo alla autonomia dell’unità umana in generale o della propria personalità in particolare.

Si supponga che un movimento a base di “resistenza passiva” si svolga su grande scala; non più attuata dietro l’ordine di capi o di “leader”, ma studiato, premeditato, deciso individualmente da ciascuno di coloro che vi prendono parte; si supponga di un movimento di resistenza passiva parziale o generale, applicato ad uno qualunque degli esempi succitati; che potrebbe fare,              - domandano gli individualisti – contro questo sciopero silenzioso, ma deciso, contro questa “astensione”, uno Stato, un governo, una dittatura qualunque?
[…]

Chi non si accorge che la resistenza passiva, che l’astensione, preparata, maturata, praticata scientificamente, avrebbe ben altra portata, ben altro valore di un’agitazione chiassosa, tumultuosa, irriflessiva, trascinante nei suoi gorghi, volenti o nolenti, una folla di seguaci pronti a fuggire al primo serio ostacolo, gli uni perché si sono lasciati trascinare non osando andare contro corrente, gli altri perché mai avevano pensato a tutte le conseguenze che potevano derivare da uno sciopero che si prolungasse un poco? […]

venerdì 26 novembre 2010

Che fine ha fatto il ruolo civile del sapere _ di Angelo Nizza


I nostri giorni registrano la perdita del valore sociale della formazione universitaria italiana. L’ultimo a ricordarlo è stato Umberto Eco in un articolo pubblicato su repubblica.it il 15 ottobre (Il Paese dei dottori laureati al parcheggio). Il nostro sistema educativo poggia più sulla quantità, che sulla qualità: il raggiungimento dei crediti conta più della possibilità di conoscere e approfondire certi contenuti. A detta di Eco vige un palese sbilanciamento che premia, si fa per dire, chi fa di più e non chi fa meglio. La principale conseguenza, che è anche il peggiore dei mali, è avere un’istruzione aritmetizzata, che bada al calcolo della proporzione esatta tra numero di pagine da studiare, ore di insegnamento e peso didattico complessivo espresso in cfu. Non si va oltre questo rapporto e, dunque, ogni significato qualitativo legato all’apprendimento viene meno. Decisivo è che ad essere danneggiato risulta, soprattutto, il ruolo politico del sapere. Con “politico”, o con ogni altra declinazione di questo termine, non deve intendersi una determinata professione contemporanea, almeno in questa sede. Bensì, alla maniera greca, “politica” riguarda la città, il luogo in cui abito, l’ambiente che mi circonda. “Ruolo politico del sapere” vuol dire, quindi, riconoscere alla conoscenza un ruolo pratico, una funzione concreta, che si confronti con i fatti del mondo e non si rinchiuda dentro estratte esegesi. È questa la dote civile che l’ accademia sta perdendo. Troppo attenta a far quadrare le tabelle, l’università dimentica che là fuori c’è una vita che aspetta di essere vissuta. Il resto è notizia di questo mese: il governo si è accorto di non avere i soldi e ha rinviato il Ddl Gelmini. C’è chi dice menomale. Ma il dramma è un altro. E che la paradossale presa in giro a riguardo ad una riforma prima annunciata, quindi contestata, poi emendata, contestata di nuovo e alla fine lasciata in sospeso per mancanza di risorse. Questa è l’importanza strategica, civile e politica, della ricerca e dell’alta formazione in Italia. Tuttavia, il resto non è solo questo. Infatti, rilevare la perdita del ruolo civile del sapere all’interno delle mura accademiche ha generato la nascita di scuole e festival dedicati a questa o quella branca del sapere. Eventi di piazza, che portano la scienza, la letteratura e la filosofia fuori dai canali tradizionali. Un solo esempio, che appartiene alla Calabria. Quest’estate si è tenuta la prima edizione della Scuola di filosofia di Roccella Jonica, dal titolo “Riflessi del presente: individuo vs. politica.”. Sono intervenuti Mario Alcaro, Pietro Barcellona, Giuseppe Cantarano e Ida Dominijanni. Il punto su cui sono convenuti è stato quello di affermare l’importanza del carattere pubblico della conoscenza, che non deve indietreggiare di fronte al mondo, ma prenderlo in carico. Poco male. L’augurio è che l’esperienza roccellese continui e si rafforzi, guardandosi dallo spettacolarizzare i suoi dibattiti. Quanto all’università: forse, non è ancora sicuro, il decreto mille proroghe tirerà fuori i soldi. Ma, ecco il dubbio: in quelle ore incalzeranno già i preparativi per il cenone di Natale. Meglio aspettare la befana.
(da "Fatti al Cubo", giornale indipendente dell'Università della Calabria)

domenica 21 novembre 2010

Autogestione e cooperazione _ di Roberto Ambrosoli


Dall'epoca dei "probi pionieri di Rochdale", il movimento cooperativo ha fatto innegabilmente parecchia strada, ma ha perso, nel contempo, buona parte del mitico alone che lo circondava agli inizi della sua storia. È diventato un elemento determinante nell'economia tardo-capitalista, ma ha smarrito nelle pieghe della sua espansione le speranze di progresso sociale, di emancipazione, di libertà, che un tempo aveva saputo suscitare. Ma un grande movimento, dalle origini così nobili, non vive solo nella propria potenza economica. Ha bisogno anche di una giustificazione ideale, di una "filosofia" con cui presentarsi in pubblico per chiedere apprezzamento e consenso. Ed è così che la cooperazione tende oggi, in armonia col mutare dei tempi e dei gusti, a ricostruire la propria immagine interna alla concezione autogestionaria, legittimando con essa il proprio solido, non conflittuale inserimento nel "sistema". La cooperazione, si dice, è un esempio concreto di "autogestione realizzata", un canale immediatamente accessibile, non relegato nel domani dell'utopia, verso cui può indirizzarsi proficuamente la crescente domanda di autogestione che caratterizza la nostra epoca. Per la verità, una tradizione propriamente autogestionaria, nel senso di una consapevole attenzione per i problemi della partecipazione decisionale, manca nel movimento cooperativo. Questo, piuttosto, ha sempre proposto come proprio elemento caratterizzante l'associazionismo mutualistico, cioè l'associarsi per la realizzazione ed il godimento del vantaggio economico derivante da tale associazione e non altrimenti ottenibile. In altri termini, una cooperativa esiste in quanto un gruppo di persone riunisce i propri strumenti produttivi, siano essi capitali (denaro e/o prodotti) o lavoro o entrambi, ma lo scopo di ciò è la ripartizione, in ultima analisi, del profitto dell'attività economica associata, e non, necessariamente, la gestione egualitaria degli strumenti stessi. Cionondimeno, la rivalutazione in chiave autogestionaria della cooperazione parte proprio da questa concezione. I soci, si afferma, si trovano ad essere, in quanto tali, accomunati da un medesimo interesse, e possono quindi partecipare paritariamente all'organizzazione della produzione: il mutualismo garantisce la diffusione tra i soci dell'attività imprenditoriale, il che permette nei fatti, anche se non programmaticamente, la loro autogestione. Perché una tale impostazione sia valida, è per lo meno necessario, oltre ad una verifica della dichiarata "uguaglianza" tra i soci, che i soci stessi siano le uniche figure presenti all'interno delle cooperative. In effetti, i moderni teorici della cooperazione tendono spesso a "scontornare" la figura del socio dal contesto generale in cui è inserita, in modo da farla apparire come preminente: le cooperative sono fatte di soci, quindi l'organizzazione della produzione non può essere che funzione, espressione, del loro associarsi, quali che siano le modalità tecniche con cui viene esercitata. Anche quando si ammette che tale situazione ideale non è sempre pienamente realizzata, e si riconosce la necessità di migliorare la qualità della partecipazione sociale alla vita dell'impresa, la struttura cooperativistica è comunque considerata adatta all'accoglimento di queste istanze autogestionarie: una struttura certamente imperfetta, ma perfettibile, che può essere utilizzata nel suo insieme, per la costruzione di quell'autogestione "concreta" di cui si è detto. Tutto ciò è ben lungi dall'essere vero. Al contrario, è nostra opinione che la struttura attuale della cooperazione sia esattamente antitetica all'autogestione. Nelle note che seguono, cercheremo di dimostrarlo, con un esame forzatamente generale, ma realistico, di tale struttura.

La divisione del lavoro
Al di là delle attribuzioni moderne, l'ambizione tradizionale della concezione cooperativistica è sempre stata l'abolizione degli effetti disegualitari del profitto capitalistico, perseguita attraverso l'equa ripartizione dell'utile conseguente all'associazione dei mezzi di produzione. A tale ripartizione è stata affidata tutta la "carica" egualizzatrice della cooperazione. Si può già obiettare che ripartizione "equa" non è necessariamente sinonimo di "ugualitaria". È noto infatti che il vantaggio mutualistico realizzato, viene normalmente suddiviso tra i soci in modo proporzionale al valore (variamente calcolato) dei mezzi di produzione conferiti, confermando, e non eliminando, le eventuali disuguaglianze iniziali. Ma da ciò possiamo anche prescindere, visto che quest'ultime sono frequentemente poco accentuate e noi abbiamo accettato di abbandonare l'utopia per restare nel campo del "possibile". Resta però il fatto che non è, appunto, possibile ridurre la problematica della produzione alla sola considerazione del profitto. Vi sono anche, con buona pace degli apologeti del mutualismo, i problemi connessi con la divisione del lavoro, ché produrre non significa solo tenere i costi al di sotto dei ricavi, ma anche esecuzione tecnica, commercializzazione, amministrazione, e via dicendo. In altri termini, il vantaggio mutualistico (il profitto) non è frutto esclusivo dell'associazionismo, del conferimento alla cooperativa di un certo quantitativo di strumenti produttivi, ma comporta, per realizzarsi, una serie di attività "pratiche", manuali e intellettuali, senza le quali, a fine anno, non ci sarebbe alcun vantaggio da ripartire, equamente o egualitariamente che sia. La composizione interna della cooperativa, quindi, non è affatto omogenea: accanto alla funzione del socio in quanto tale, conferitore di mezzi di produzione, altre funzioni sono necessarie, ben differenziate tra loro, tanto da far ritenere improponibile l'affermazione che nelle cooperative "sono tutti soci". Tali funzioni possono essere anche svolte da soci (nonostante ciò, nella realtà, accada con sempre minore frequenza) ma questo non ha nulla a che vedere con una presunta preminenza della figura del socio sulle altre. Di conseguenza, la verifica delle possibilità autogestionarie della cooperazione non può essere limitata all'esame dei rapporti tra i soci, né l'associazionismo può essere considerato l'elemento caratterizzante di essa. La "natura", autogestionaria o meno, della cooperazione risulta invece dall'insieme dei rapporti organizzativi che vengono ad instaurarsi tra le varie funzioni che concorrono alla creazione del vantaggio mutualistico, cioè, appunto, dal modo con cui viene affrontato il problema della divisione del lavoro. A tale proposito, possiamo osservare che l'ideologia cooperativistica, tutta centrata sulla mutualità e quindi tesa a privilegiare l'importanza dei rapporti tra i soci, non ha in sé elementi originali per affrontare la divisione del lavoro, la quale appare, anzi, spesso riguardata con nessuna attenzione. Ed è così che, lasciata a se stessa, l'organizzazione della produzione cooperativa risulta indipendente dai principi mutualistici, e prende una strada che con essi non ha nulla a che vedere.

Ma c'è la tecnocrazia aziendale
Le operazioni tecniche e amministrative che, successivamente al momento associativo, devono essere espletate per la creazione del vantaggio mutualistico, si realizzano concretamente in una struttura aziendale, la quale rappresenta la cooperativa fisicamente intesa. Essa, nel suo complesso, ha la funzione di "gestire" gli strumenti produttivi conferiti dai soci, si tratti di procedure alla trasformazione tecnica dei beni, alla loro commercializzazione diretta, all'organizzazione del lavoro fornito dai soci (nelle cooperative di lavoro), o anche alla pura e semplice amministrazione. Nelle prime forme di cooperazione, tale struttura era generalmente poco rilevante, essendo limitate le manipolazioni da eseguire sui beni conferiti, ed essendo il vantaggio mutualistico, il più delle volte, realmente frutto principale dell'associazione, della messa in comune degli strumenti produttivi. Non così oggi, come è noto. L'espansione gigantesca delle cooperative si è realizzata attraverso il potenziamento di questa che abbiamo chiamato la "gestione" dei beni conferiti dai soci, aumentando le trasformazioni, espandendo l'area dell'intervento commerciale, appaltando lavori di vasta portata. Sicché la struttura aziendale cooperativa è diventata qualcosa dall'apporto produttivo determinante, organizzativamente complessa e anche fisicamente estesa. Inoltre, nelle cooperative del buon tempo antico il funzionamento della struttura aziendale era affidato ai soci stessi, dimodochè il momento associativo veniva praticamente a confondersi con la gestione. Al contrario, l'azienda cooperativa moderna conta in buona parte sul lavoro di personale "dipendente", non proveniente dai soci, sia per quanto riguarda le mansioni intellettuali che per quelle manuali, il che significa che i soci sono estranei a questa struttura dalla quale, dipende la ragion d'essere del loro associarsi. Diciamo subito che, quand'anche ciò non avvenisse, e le operazioni di gestione fossero interamente eseguite da soci, le cose non cambierebbero, poiché ognuno potrebbe controllare solo una frazione della gestione, a causa della sua complessità. Il fatto è che la struttura cooperativa resta qualcosa di separato dai soci in quanto tali, non avendo la gestione nulla a che vedere col momento associativo. I soci esplicano ed esauriscono la propria funzione attiva, il proprio "fare i soci", solo nel momento in cui conferiscono alla cooperativa i mezzi di produzione stabiliti: da quando questi ultimi vengono "catturati" dalla struttura aziendale, l'iter a cui vengono sottoposti (in fondo al quale c'è il vantaggio mutualistico) non è più determinato dall'associazionismo, dall'esser soci, ma è funzione esclusiva del funzionamento della struttura, della gestione, Il vantaggio mutualistico percepito diventa così una sorta di "regalo" della struttura, sul quale l'essere socio non ha potere di condizionamento, non dissimile in ciò dal dividendo passivamente percepito dall'azionista di una società per azioni. La struttura aziendale assolve dunque, nei fatti, la funzione imprenditoriale che la concezione mutualistica vorrebbe, invece, egualitariamente distribuita tra i soci: reperisce gli strumenti produttivi (quelli conferiti dai soci ed altri eventualmente necessari), li coordina in modo "intelligente", trasformando l'ammasso bruto dei beni in produzione economicamente redditizia. Tale funzione è ben lungi dall'essere anonima e impersonale (e quindi, presumibilmente innocua, ai fini del potere). Nella realtà, infatti, la struttura aziendale cooperativa ha un'organizzazione piramidale, formata, al vertice, da una tecnocrazia aziendale e via via, al di sotto di essa, della schiera stratificata degli esecutori delle sue decisioni. È questa tecnocrazia che esercita concretamente la funzione imprenditoriale espropriata ai soci dalla struttura aziendale, e ciò avviene proprio in virtù dell'assetto organizzativo piramidale, che delega le decisioni ai vertici dell'azienda. Si può quindi sostenere che la struttura aziendale cooperativa si configura come un organismo finalizzato non alla pura e semplice gestione tecnica del mutualismo, ma all'esercizio di un potere tecnocratico sul mutualismo, di un potere che si realizza privando i soci della loro capacità decisionale. Ciò è dimostrato anche dalla mancanza di adeguate istituzioni organizzative disponibili ai soci per esercitare il proprio controllo sulla gestione della cooperativa. Di fronte alla sempre minore trasparenza delle operazioni di gestione, per la crescente complessità ed articolazione di esse, i soci hanno soltanto l'Assemblea, ritualmente convocata, per interpretare e valutare le scelte aziendali. Essa è l'unico punto ufficiale di contatto organizzativo tra il momento associativo e la gestione, e si riduce pertanto ad una ratifica passiva delle decisioni della tecnocrazia aziendale, fenomeno del quale esiste ormai un'ampia documentazione. A nostro giudizio, qui sono chiaramente visibili i limiti della concezione mutualistica, per quanto riguarda la partecipazione decisionale. Come si è detto, il mutualismo non possiede elementi per determinare, in modo a sé funzionale, l'organizzazione della produzione. Quest'ultima, lasciata alla propria "spontaneità", tende ad assumere un assetto gerarchico, basato sulla divisione del lavoro. È questa divisione del lavoro che espropria gli associati della propria autonomia decisionale, condizionando il mutualismo anziché esserne condizionata.

Una piramide con tanti gradini
Il quadro che abbiamo delineato non è necessariamente sempre generalizzabile. Esistono ancora, infatti, piccole cooperative dove si realizza un'accettabile approssimazione di partecipazione ugualitaria alle decisioni, nonostante l'esistenza di una struttura aziendale formalmente gerarchica. Ma ciò non toglie validità alle considerazioni fatte, poiché in esse la partecipazione è consentita solo dalla semplicità delle operazioni di gestione, non da un assetto organizzativo ad essa finalizzato. Conosciamo tutti, d'altronde, la vita stenta che queste organizzazioni di modeste dimensioni conducono, e come siano continuamente sollecitate ad ingrandirsi (attraverso il potenziamento o la fusione) per poter sopravvivere. Ed è proprio man mano che l'espansione dimensionale si realizza, che l'assetto gerarchico, inizialmente innocuo, va esplicitando la sua opera disugualizzatrice ed "eterogestionaria" , fornendo la trama intorno a cui si tesse il potere di una embrionale, e poi consolidata, tecnocrazia. Ma quand'anche, per avventura e miracolo, ciò non avvenisse, il discorso continuerebbe a non cambiare nella sostanza. Perché l'esproprio decisionale dei soci non è preparato esclusivamente all'interno delle cooperative, ma anzi, è soprattutto dall'esterno di esso che si realizza il controllo dell'associazionismo mutualistico. L'espansione del movimento cooperativo, infatti, non è avvenuta soltanto attraverso la dilatazione produttiva delle singole aziende, ma è stata caratterizzata dall'instaurarsi di una serie di rapporti, sempre più complessi e intrecciati, tra le cooperative stesse. In altri termini, sono venuti a crearsi livelli superiori di aggregazione organizzativa, il cui massiccio potenziamento è, ad un tempo, causa ed effetto dell'attuale rilevanza economica della cooperazione. Formalmente, i vari gradini della piramide sono anch'essi cooperative, come quelle che ne costituiscono la base. Si parla infatti di cooperative di secondo grado (la parte intermedia della piramide), quando i "soci" sono cooperative vere e proprie, e di terzo grado (il vertice, cioè le Centrali) che derivano dall'associazione delle precedenti. Nella realtà, le cose stanno diversamente, perché mentre negli organismi di primo ordine la creazione e il godimento del vantaggio mutualistico, ancorché condizionato, come si è visto, dalla struttura di gestione, costituisce lo scopo e il presupposto dell'associarsi, qui (se si eccettuano i gradini più bassi della piramide, cioè i consorzi e le associazioni locali) non esiste un vero e proprio conferimento di strumenti produttivi da sottoporre ad ulteriore elaborazione tecnico-economica. La funzione effettiva dei livelli medio-alti delle organizzazioni di secondo e terzo ordine è, invece, di coordinamento e controllo delle cooperative di primo ordine associate. Non siamo, cioè, in presenza di una mutualità di secondo o di terzo ordine, ma di una struttura che serve a dare le indicazioni per l'esercizio della mutualità di primo ordine. Una struttura, dunque, che è un "prolungamento" della gestione, non dell'associazionismo: questi livelli superiori di aggregazione esprimono e realizzano l'esigenza delle tecnocrazie aziendali (che controllano la gestione) di esercitare con maggiore efficienza il proprio potere, coordinando le proprie attività in modo da sfruttare più razionalmente la potenzialità produttiva fornita dai soci. Lo prova il fatto che, mentre nell'associazionismo di primo ordine il socio-individuo resta estraneo alla gestione (esaurendo il suo rapporto con essa nel conferimento dei mezzi di produzione) qui il socio-cooperativa non si limita ad una passività decisionale, ma entra a far parte della struttura superiore, in posizione gerarchicamente subordinata: accetta cioè di attenersi alle decisioni che vengono prese ai gradini più elevati della piramide e che, peraltro, sono prese proprio in previsione di tale attitudine esecutiva. È sempre l'assetto piramidale presente nelle singole aziende che consente ciò: la fedeltà alle decisioni dei vertici dell'organizzazione è garantita, a livello di cooperativa, dal monopolio delle decisioni che i dirigenti della cooperativa posseggono. Insomma, la gestione dei mezzi di produzione forniti dai soci, cioè l'attività imprenditoriale ad essi espropriata, viene globalmente esercitata da questa super-struttura dirigenziale, i cui funzionari costituiscono, nel loro complesso, la tecnocrazia cooperativa. I dirigenti delle cooperative (in quanto tali) rappresentano solo l'ultimo livello di essa, ancora a contatto diretto con gli aspetti concreti della produzione. Ma, man mano che si sale verso la sommità della grande piramide, verso i dirigenti delle Centrali, si osserva facilmente come le funzioni svolte siano sempre più schiettamente manageriali, di pura direzione, nel senso decisionalmente più ampio del termine. L'espansione del movimento cooperativo è, nella realtà, l'espansione di questa tecnocrazia. Il movimento cooperativo possiede oggi una capacità di intervento economico, di interlocuzione diretta con la classe politica, in una parola una potenza all'interno della società tardo-capitalista, che non è frutto della mera dilatazione del mutualismo (anche se per tale viene fatta passare), quanto della disponibilità operativa della struttura dirigenziale, vale a dire della possibilità di avere "ai propri ordini" una schiera sterminata, operosa ed obbediente di aziende cooperative. Tale disponibilità, da un lato consente alla tecnocrazia della cooperazione di proseguire l'estensione della propria rilevanza sociale, dall'altro relega il mutualismo, con le sue pretese autogestionarie, nel limbo della dipendenza e dell'emarginazione decisionale.

Al servizio dell'autogestione
In conclusione, crediamo di aver delineato abbastanza chiaramente come la cooperazione, anche facendole grazia di approssimazioni e limitazioni, non sia affatto in grado, nel modo con cui oggi è attuata, di accogliere e interpretare la domanda di autogestione. Al contrario, essa dimostra di essere organizzativamente impostata sui principi dell'eterogestione e a ciò finalizzata. Eterogestione che, pur non essendo voluta dal mutualismo stesso, in quanto resa possibile dall'incapacità di questo di generare una ricomposizione egualitaria della divisione del lavoro. L'accettazione della divisione del lavoro fa del mutualismo uno strumento passivo al servizio delle dirigenze tecnocratiche. Così stando le cose, ogni forma di proposta autogestionaria, ogni offerta di partecipazione decisionale dei soci, si trasforma, in seno al movimento cooperativo, in cogestione asimmetrica tra dirigenti e diretti, non risultando mai messa in discussione l'esistenza e le competenze della struttura di controllo. Tutto ciò è inevitabile? Non è, cioè, possibile concepire una diversa "applicazione" del mutualismo, tale da riflettere i propri teorici principi di solidarietà e collaborazione sull'organizzazione della produzione, sì da "modellarla" in senso, magari parzialmente, ma genuinamente autogestionario? Così formulata, secondo l'ottica dei mutualisti ad oltranza, la domanda non può avere che una risposta negativa, per le considerazioni fin qui fatte. Cionondimeno, non si può negare che l'associazionismo offra alcuni vantaggi non indifferenti, come mezzo per il superamento di forme di produzione antieconomica, per aumentare il potere contrattuale di fronte ai grandi complessi produttivi e/o sociali, per migliorare le condizioni di lavoro o la qualità dell'esistenza. Vantaggi propri dell'associazionismo, e non necessariamente utilizzabili per la sopraffazione e l'esercizio del potere. In altri termini, l'associazionismo potrebbe diventare uno strumento per la costruzione, qui e subito, dei nuclei di collaborazione popolare, capaci di opporsi validamente ai condizionamenti della società tardo-capitalista. Ma perché ciò accada, è necessario che sulla concezione mutualistica si innesti una vigorosa concezione organizzativa ugualitaria, che preveda e impedisca gli effetti perversi della divisione gerarchica del lavoro. L'autogestione non può essere creata nel mutualismo, deve essere reperita altrove. Ma una volta trovata, può convivere con esso: la cooperazione potrebbe diventare una sorta di "cornice istituzionale" all'interno della quale realizzare, in un mondo ancora nemico e violento, l'autogestione concreta, il massimo possibile di partecipazione decisionale. Allora, forse, l'associazionismo potrà "servire" all'autogestione, nel senso di permettere l'attuazione di una pratica organizzativa che altrimenti non avrebbe vera rilevanza sociale.

sabato 20 novembre 2010

Un grande utopista contemporaneo _ di Silvia Ferbri


La mattina dello scorso 30 luglio, nella sua casa a Burlington nel Vermont, è morto per una malattia cardiaca Murray Bookchin, uno dei pionieri del movimento ecologico, tra i fondatori dell’Istituto per l’Ecologia Sociale del Vermont, una delle voci più ascoltate della controcultura americana e della New Left, pensatore anarchico e utopico, forse l’ultimo grande utopista dei nostri giorni. Ma per l’originalità, la vastità e la libertà del suo pensiero, una qualsiasi definizione o collocazione appare limitata o fuorviante. Recentemente si è sentito parlare ben poco di lui e delle sue idee, così come si è letto, e quindi scritto, ancora meno. Eppure l’ampiezza del suo corpus teorico, la lucidità e la coerenza della sua analisi, la forza delle sue proposte non solo avrebbero meritato e meritano ben altra considerazione, ma esprimono a tutt’oggi un’attualità, una tensione verso il futuro che andrebbero tutt’altro che trascurate o considerate fuori moda. La sua è una proposta di radicale alternativa sociale, economica, politica, volta alla costruzione di una nuova società autenticamente libertaria. La sua analisi parte da lontano, dalle radici della gerarchia e del dominio che ancora ci portiamo dentro, ed esplora i percorsi dell’umanità, spaziando dall’antropologia alla storia delle religioni, dalla filosofia al pensiero politico, dalla biologia all’economia, attraverso il retaggio del dominio e il retaggio della libertà, gli errori e gli inganni delle ideologie, la periodica comparsa di utopisti che hanno cercato di svegliare le coscienze e di opporsi al corso delle cose, per arrivare ai nostri giorni e lanciare il suo grido di allarme, per mostrarci la necessità e l’urgenza di cambiare rotta. Radicalmente.
La sua è una proposta radicale, ma non irrealizzabile. Le soluzioni parziali non sono più sufficienti, ha sempre insistito Bookchin, come del resto mai sono state; ma affinché una soluzione non sia parziale, non agisca sugli effetti anziché sulle cause, non continui a perpetuare gli stessi errori in un modo e in un contesto solo apparentemente e ingannevolmente diversi, occorre una visione completa e non frammentata, al di là delle costrizioni ideologiche e politiche, una visione non miope della storia, dei rapporti umani, del rapporto tra l’uomo e la natura. Occorre la conoscenza approfondita della nostra storia, di che cosa sono realmente e di quando e come si sono formati dominio e gerarchia, e la comprensione e la convinzione che è da lì che dobbiamo partire, dalla dissoluzione di ogni forma di dominio, di coercizione e subordinazione, per poter costruire una società autenticamente libertaria. Nessuno di noi è del tutto immune da quella mentalità gerarchica che si è inserita profondamente in ogni aspetto della vita sociale e personale, nella nostra sensibilità più profonda, al punto che ci è quasi impossibile vederla; e quando l’abbiamo riconosciuta nelle istituzioni sociali, politiche, economiche, non siamo stati in grado di combatterla perché la nostra lotta era incompleta e inconsapevole, perché la nostra visione era limitata, perché la direzione era distorta. Periodicamente qualcuno si è avvicinato molto. Gli esempi non mancano. E questo significa che non tutto è perduto (…).

Contro la gerarchia e l’oppressione
In cosa consiste la sua teoria sull’ecologia sociale, quali sono le sue proposte per la realizzazione di una società ecologica e autenticamente libertaria? Difficile riassumere il suo pensiero in così poco spazio, ma quello che ci preme ricordare è l’importanza della sua analisi e delle sue riflessioni sull’emergere della gerarchia e del dominio, le cause prime di tutte le forme di oppressione. Il dominio dell’uomo sull’uomo nasce prima del dominio dell’uomo sulla natura, che ne è la conseguenza. La gerarchia e l’oppressione nascono prima delle classi e dello stato, e non sono inevitabilmente connesse allo sfruttamento economico o alla dominazione politica. Le strategie di comando e obbedienza, con il passare del tempo si sono sempre più professionalizzate e organizzate, fino all’affermarsi degli stati nazionali, del capitalismo, alla definitiva scomparsa degli antichi legami comunitari, della politica attiva e della cittadinanza, per arrivare all’inganno delle democrazie rappresentative, all’alienazione e all’isolamento degli attuali agglomerati urbani, al disastro ambientale ed ecologico.
Qualunque cambiamento, secondo il suo pensiero, passa dall’abolizione di ogni forma di dominio. Ma per poter ottenere ciò, occorre che ciascuno di noi esplori e comprenda la storia del dominio, come si è inserito in ogni aspetto della vita umana, come si è subdolamente insinuato nelle ideologie, nei movimenti, nei partiti politici, così come è fondamentale non dimenticare tutti coloro che, nei vari tempi, hanno cercato di opporsi e di risvegliare le coscienze; tutti coloro che hanno provato ad esercitare la libertà, senza farci sviare dal loro fallimento. Ciò che caso mai deve sorprenderci, e incoraggiarci, è il periodico riproporsi di questi coraggiosi tentativi: la conclusione di Bookchin è che dentro gli esseri umani esiste concretamente la possibilità di vivere una vita autenticamente libera. Le cose sono andate in questo modo, ma potevano andare altrimenti, ciò che esiste attualmente non è sempre esistito e una svolta è sempre e ancora possibile. Non per tornare indietro, ma per ripartire da oggi con la consapevolezza che ancora ci manca.

Lavorare su noi stessi
Gli stati, massima espressione e professionalizzazione del potere, dell’oppressione, del monopolio della violenza e dell’espropriazione degli individui dei loro valori, delle loro aspirazioni, del loro sentire, dei loro legami comunitari, del loro diritto a partecipare in prima persona alle scelte che riguardano la loro vita e l’ambiente che li circonda, sono un fatto relativamente recente nella storia. C’è sempre stata una resistenza, a volte molto forte, al loro imporsi. E ancora esiste nel più profondo del nostro essere. Non abbiamo perso definitivamente la capacità di prendere in mano le nostre vite, di autogestire i diversi aspetti del vivere comune, nel dialogo, nel rispetto e nell’accrescimento reciproco. Ci sono esempi molto recenti e significativi di esperienze in questo senso, basti pensare al comunismo libertario e al sindacalismo anarchico durante la guerra di Spagna. L’invito di Bookchin è a proseguire su questa strada, partendo dalla situazione attuale, continuando a sperimentare in prima persona la libertà, facendo tesoro delle esperienze passate e continuando a ricordare, a studiare, a dialogare e confrontarci.
Lavorando su noi stessi e insieme agli altri, per eliminare via via ogni residuo di sensibilità gerarchica e autoritaria in tutti gli aspetti delle nostre vite. Senza farci ingannare da chi maschera abilmente il suo desiderio di potere (o di asservimento) dietro un falso tentativo di cambiare le cose restando dentro il sistema, le istituzioni e le logiche che invece vanno definitivamente aboliti. Bookchin ci parla di democrazia e azione diretta (che non devono essere solo strategie o tattiche limitate a una situazione contingente, ma una vera sensibilità, un modo di vivere), di municipalismo libertario, di economia municipale, di confederalismo. Di disintegrazione dello stato e di ogni forma di potere e di controllo, dal basso, senza aspettare illusori crolli del sistema capitalista o senza affidare questo compito a una qualche classe economica. E dei veri significati delle parole «ragione», «giustizia», «libertà», «uguaglianza», della distinzione tra felicità (soddisfacimento dei bisogni) e piacere (realizzazione dei desideri). Dell’importanza della soggettività e del valore delle differenze, per realizzare un’autentica «unità nella diversità». Il suo pensiero ci rimanda ai fondamenti dell’eco-anarchismo di Kropotkin e ai grandi ideali illuministici di ragione, libertà, forza emancipatrice dell’istruzione di Malatesta e Berneri. Proviamo a rileggerlo, a riflettere e confrontarci su quanto ha detto e scritto. E non solo per commemorarne la scomparsa.

Silvia Ferbri

venerdì 19 novembre 2010

L'ambizione alla velocità...


"Mi venivano delle riflessioni sulla lentezza degli esseri umani a piedi rispetto alle loro necessità o alle loro ambizioni di spostamento. Pensavo che qualsiasi altro animale ha un rapporto più equilibrato tra la propria velocità e l’estensione del territorio di cui ha bisogno o voglia. Pensavo a come si muove rapida una formica attraverso una stanza che per lei è grande quanto la distesa dei pascoli lo era per me; e a come per converso è contento un bradipo di starsene quasi fermo sui rami del suo albero a mangiare foglie. (…) Pensavo a tutti i panzoni e le culone e le magrette secchette e i tozzi inquartati che si sentivano nobili e agili come centauri e amazzoni mentre mi venivano dietro su zampe altrui; me li immaginavo a piedi come me, schiacciati dalla pressione atmosferica e limitati dalla pretesa di camminare eretti, umiliati dai loro stessi corpi. (…) Pensavo a quanto la storia degli esseri umani è stata influenzata dal desiderio di affrancarsi da questa frustrazione di fondo, in una linea ossessiva che ha portato grado a grado all’addomesticamento dell’asino all’invenzione della ruota alla scoperta della staffa alle orde barbariche dell’Asia alle crociate all’invasione delle Americhe al motore a scoppio alle guerre mondiali al turismo di massa al dominio delle macchine alla cementificazione del mondo alla sua distruzione progressiva. Mi chiedevo come sarebbero andate le cose se la nostra specie avesse avuto in dotazione una velocità naturale più gratificante: se avremmo fatto meno danni o invece ancora di più; se la lentezza era un tentativo patetico della natura di tenere a freno le nostre tendenze aggressive e devastatorie."

(dal romanzo "nel momento", Andrea De Carlo)

sabato 13 novembre 2010

Autogestione: cos'è, cosa significa


Principi
Secondo i principi dell’autogestione, i lavoratori\lavoratrici e le individualità in generale, si impossessano dell’attività gestionale ed economica di un’azienda\scuola\edificio, promovendo la cooperazione e la creatività dei singoli individui. L’amministrazione di queste strutture autogestite è generalmente basata sul consenso e sulla democrazia diretta; la sua origine concettuale definisce molto semplicemente i compiti di ognuno, che devono esseri sviluppati con il coinvolgimento diretto di quante più persone possibili.
Ogni individualità partecipa associativamente, e in egual misura, alla gestione amministrativa: condivisione di rischi e benefici, autofinanziamento, autoproduzione, distribuzione diretta ecc.
Secondo questo modello autogestionario il lavoro è collettivo e anche la proprietà lo è, inoltre lo sviluppo locale è necessariamente sostenibile per poter dar seguito coerentemente ai propri principi, determinando generalmente lo sviluppo di economie su piccola scala (micro negozi, cooperative, ecc.).
L’autogestione non è compatibile con altre tradizionali forme economiche (che i principi dell’autogestione ritengono tanto ingiuste quanto inadeguate), poichè non esiste alcuna figura di "padrone" né di lavoratori subordinati ad altri, e non si deve confondere con modelli apparentemente similari che, nonostante propongano il controllo operaio sulla produzione, mantengono la gerarchia e il controllo esterno dell’organismo autogestito (per es. da parte di un burocrate, partito, sindacato ecc.); non si deve confondere con la co-gestione, in cui il proprietario gestisce l’organismo avvalendosi del contributo dei lavoratori a cui spetta una parte del profitto.
Efficienza dell’impresa autogestita
L’economia autogestionaria pone allo stesso livello l’efficienza economica e la gratificazione umana, ritenendole entrambe essenziali per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
I critici (burocrati, funzionari e capitalisti) ritengono che interpellare ciascun lavoratore per ogni questione aziendale significhi perdere tempo prezioso. L’autogestione invece attribuisce grande importanza al capitale umano, ritenendo che il potere d’agire deve essere messo in mano a ciascuna individualità, congiuntamente agli altri suoi compagni. Secondo i principi della democrazia diretta, applicati ad un’azienda autogestita, i lavoratori devono esprimersi congiuntamente, mediante assemblee pubbliche, solamente se le questioni riguardino tutta l’azienda, mentre i singoli e specifici problemi della stessa devono essere risolti dai lavoratori competenti di quel determinato settore.
Il sistema capitalistico e quello autogestionario attribuiscono diverso significato alla parola efficienza: per i primi essa ha un valore semplicemente economico, per i secondi ha anche un significato sociale ed umano. Per gli “autogestionari” la strutturazione orizzontale dell’azienda e la responsabilizzazione del lavoratore, posto all’interno di un sistema cooperativistico, rendono l’azienda più efficiente e innovatrice. L’efficienza capitalistica invece determina alienazione e stress perché il lavoratore non è in grado di controllare il processo produttivo (processo centralizzato), ma ciò per il capitalista non è molto importante perché il lavoratore viene visto come un semplice strumento di lavoro, il cui valore è assai relativo.
Riferimenti storici
La gerarchia e lo Stato sono un’invenzione relativamente recente, la storia umana per buona parte del suo corso si è strutturata su un modello libero e autogestionario.
Come sosteneva Jean-Jacques Rousseau, l'uomo è nato libero ma poi è stato ridotto in catene («L'uomo è nato libero, ma dovunque è in catene»). Molti studiosi, tra cui molti anarchici, ritengono che la libertà autogestionaria dell'uomo è cessata con la scoperta dell'agricoltura, da cui si è sviluppato il nefasto concetto della proprietà privata, del dominio (dell'uomo sulla donna, del ricco sul povero, del forte sul debole, dell'uomo sugli animali ecc.), della gerarchia, del patriarcato ecc.
La storia racconta però episodi in cui l'uomo ha tentato di riprendersi la propria libertà attraverso pratiche autogestionarie.
Esperienze storiche autogestionarie
Le prime esperienze d’autogestione di una certa rilevanza storica sono state quelle sviluppatesi nelle poleis greche, in cui le decisioni politiche venivano deliberate durante le assemblee pubbliche dell’Agorà. Murray Bookchin ha strutturato il proprio pensiero libertario (municipalismo libertario) sulla base dell’esempio democratico ateniese, seppur “limandone”, ovviamente, le incrostazioni classiste dell’epoca che limitavano la partecipazione all’assemblea.
Anche durante l'epoca medioevale, in cui la vita era organizzata intorno ai comuni, si sviluppano strutture associative d'autogestione, anche se, così come nelle polis greche, la libertà delle associazioni era limitata e non piena e assoluta. Secondo Pëtr Kropotkin durante il medioevo vi fu «una forte affermazione dell’individuo, che giunse a costituire la società per mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e città. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spirito unitario e accentratore romano, con il quale si cerca ancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento universitario. Questo movimento non si ricollega ad alcun personaggio storico di particolare rilievo né ad alcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo naturale, proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, a una certa fase dell’evoluzione umana e non a questa nazione o a quella regione.»
Finalmente nella Comune di Parigi (1871) si tenta, sulla base delle esperienze storiche passate, di rompere gli argini in cui solitamente veniva ristretto il fondamento dell’autogestione, ampliandola a “tutto e tutti”.
Le pubbliche assemblee sono valse come esempio per i marinai di Kronstadt, per gli insorti dell’Ucraina libertaria di Nestor Makhno, per i libertari della Spagna del ‘36, per gli studenti del Maggio 1968 e, più recentemente in Italia, per il cosidetto movimento No TAV, No DalMolin ecc.
Un esempio recente di autogestione lo si é avuto nel 2001 in Argentina con l'esproprio operaio della fabbrica di ceramiche Zanon FaSinpat (ormai l' espoprio è stato riconosciuto legalmente), ancora oggi esemplarmente autogestita dagli operai nonostante i vari tentativi di sgombero da parte delle forze dell' ordine.
Anarchismo e autogestione
Gli anarchici fanno dell’autogestione uno dei principi fondanti del pensiero libertario. Il sistema di Potere attuale, in qualunque forma si presenti, struttura la propria essenza non solo sul controllo e il governo delle risorse, ma anche sul controllo e il governo degli individui. Talvolta questo sistema autoritario è giustificato dagli stessi subordinati, i quali si ritengono incapaci, per via "dell'educazione" volta ad annichilire l'individuo, di gestire autonomamente le proprie esistenze.
La storia dell’umanità, a partire dagli esempi proposti in precedenza, dimostra non solo che l’autogestione è possibile, ma è nella maggior parte dei casi più efficace e valida del sistema basato sulla gerarchia e l'autorità.
L’autogestione inoltre per essere effettivamente tale deve partire “dal basso”, cioè dall’individuo. L'individuo deve essere libero innanzitutto di governare se stesso e quindi di relazionarsi con gli altri mediante libere associazioni.
L’autogestione tuttavia non deve necessariamente limitarsi nei ristretti ambiti dell’individuo o dell’associazione, ma può essere estesa in un contesto più ampio mediante relazioni tra i comuni o le associazioni, realizzabili attraverso il federalismo.

Willy Wonka docet... ;-)

Perchè un bambino sia bene educato
una cosa importante abbiamo imparato:
non permettete mai e poi MAI,
onde evitare un sacco di guai,
che il miserello se ne stia fermo
davanti a un qualche teleschermo.
Anzi, il consiglio più pertinente
sarebbe non installare per niente
questi apparecchi che rendon cretini
sia i più grandi che i più piccini.
In tutte le case che abbiam visitato
c'era un bambino seduto impalato,
lo sguardo lustro, la bava alla bocca,
davanti a una buffa scatola sciocca.
Taluni possono stare per ore
muti guardando il televisore.
Lo sguardo fisso, l'aria di allocchi,
fuor dalle orbite gli escono gli occhi,
(una volta abbiamo fatto un censimento:
ce n'erano venti e più sul pavimento!).
Seduti immoti, ipnotizzati,
come ubriachi paralizzati
con il cervello telelavato
in un massiccio telebucato.
E' vero, signora, che tiene buoni
anche i bambini più birbaccioni,
che così noie più non le danno
e fuor dai piedi un po' se ne stanno
mentre lei scola e condisce la pasta
o con le amiche gioca a canasta -
ma non si è mai fermata a pensare
a tutti i danni che può causare
una massiccia esposizione
ai raggi della televisione?
Non si è mai chiesta esattamente
che effetto esercita sulla mente
ingenua della sua creatura
quell'invenzione contronatura?
FA A TUTTI I SENSI L'ANESTESIA!
UCCIDE TUTTA LA FANTASIA!
RIEMPIE LA MENTE DI PACCOTTIGLIA,
E FA VENIRE GLI OCCHI DA TRIGLIA!
RENDE PASSIVI E CREDULONI,
ALLENTA IN BLOCCO ROTELLE E BULLONI
CHE IL CERVELLO FAN FUNZIONARE,
NON LASCIA PIU' NULLA DA IMMAGINARE!
IL GUSTO PER LE FIABE ROVINA,
TUTTA LA TESTA RIDUCE IN PAPPINA!
A questo punto qualcuno dirà:
"Va bene, va bene, ma come si fa?
Se questo mostro di cui parlate
va eliminato con due pedate,
come faranno i nostri figlioli
a divertirsi, specie se soli?
Come passare una bella serata
senza la tele illuminata?".
Scordato avete la vostra storia?
Vi rinfreschiamo un po' la memoria?
C'era una volta una grande avventura:
la consuetudine alla lettura!
Pieni di libri i comodini,
scaffali, tavoli e anche lettini!
Tutti leggevano e il tempo volava,
e con il tempo la mente viaggiava:
storie di draghi, regine e pirati,
di navi e tesori ben sotterrati;
deserti, giungle e fitte foreste, 
cannibali e indios a caccia di teste.
Paesi strani e luoghi mai visti,
malvagi, eroi, tipi buffi o tristi:
di spazio pei sogni ce n'era a iosa,
leggere era un'attività meravigliosa!
Racconti, favole, romanzi, fumetti,
volumi, tomi, libelli e libretti,
ce n'era gran scelta e varietà 
e tutti leggevano a volontà!
Se erano piccoli i bambini
qualcuno leggeva per loro i destini
di Biancaneve e la mela stregata,
e della Bella Addormentata.
Quanti bei libri, quanti piaceri
potevano scegliere i ragazzi di ieri!
Perciò vi preghiamo, fate il favore,
buttate in cortile il televisore!
Con un scaffale riempite lo spazio
e pur se i ragazzi saranno uno strazio
per qualche giorno guardandovi male,
colmate di libri quello scaffale;
vedrete che poi, passata la crisi,
pian piano smettete di essere invisi:
per fa qualcosa, per curiosità,
saranno colpiti dalla novità.
Sfogliando un libro quasi per caso
più non potranno staccarne il naso:
riscopriranno che grande diletto 
è leggere un libro o un giornaletto!
Ci prenderanno tanta passione
che scorderanno la televisione;
i tempi in cui erano vittime inermi
del fascino truce dei teleschermi
un brutto sogno vi sembrerà
e ogni ragazzo grato sarà
a quelli che, con mossa sapiente,
l'han trasformato in un tele-indipendente!

(Da un canto degli Umpa-Lumpa de "La Fabbrica di Cioccolato" di Roald Dahl)

domenica 7 novembre 2010

Dialettica di Natura e Cultura_ introduzione al pensiero sociale di Reclus



Reclus merita d’essere ricordato per i suoi colossali contributi scientifici in molti campi, ma il suo più duraturo retaggio intellettuale è il contributo dato allo sviluppo di una visione ecologica del mondo ed in particolare al pensiero ecologico-sociale.
È stato più volte osservato che alcune concezioni dell’anarchismo sono state divergenti rispetto al filone principale del pensiero sociale e della pratica occidentali nell’essere in qualche modo più consapevoli del posto occupato dall’umanità nel mondo naturale. È vero che la tradizione anarchica è stata spesso fortemente influenzata, se non addirittura distorta, dall’alienazione umana rispetto alla natura e dalla spinta umana a dominare la natura. Tuttavia l’anarchismo è riuscito meglio di altre ideologie a scoprire le radici di quell’alienazione, a cominciare a vedere oltre il progetto di dominio e a tentare di ricollocare l’umanità nel suo giusto posto in seno alla natura. Reclus ha dato un contributo formidabile ad introdurre questa prospettiva ecologica nel pensiero anarchico.
È degno di nota che la dottrina anarchica più evoluta alla fine del diciannovesimo secolo fosse profondamente influenzata dalla geografia sociale, così come buona parte del più significativo pensiero anarchico alla fine del ventesimo secolo sia stato ispirato dall’ecologia sociale. Pur se questo parallelo storico viene occasionalmente osservato, la connessione che viene comunemente fatta è tramite un’analisi superficiale di Kropotkin come precursore dell’anarchismo ecologico. Pochi hanno capito che Reclus, ben più di Kropotkin, ha introdotto nel pensiero anarchico molti dei temi che più tardi si evolveranno in ecologia sociale. In realtà Reclus – quasi un secolo fa – non si limitò a sfiorare molti temi socio-ecologici importanti, ma li affrontò con un notevole livello di sofisticazione teoretica.
Béatrice Giblin, nel suo articolo Reclus: un écologiste avant l’heure? (Reclus: un ecologista in anticipo sui suoi tempi?), sostiene che Reclus ebbe una «sensibilità ecologica globale che morì con lui per quasi mezzo secolo». Questa drastica affermazione può nondimeno essere vista addirittura come un understatement.
La prospettiva ecologica sviluppata da Reclus, specie nella sua opera culminante, L’Homme et la Terre, in realtà scomparve dal pensiero sociale per quasi un secolo e non riemerse nel discorso ufficiale che verso la fine degli anni Settanta di questo secolo, in risposta ad una crescente consapevolezza della crisi ecologica da parte dell’opinione pubblica. La tematica ecologica è rimasta un filone sotterraneo del pensiero e della pratica anarchica e utopista, specie nell’opera di gruppi comunitari come la School of Living. E tuttavia anche in quel pensiero anarchico ed utopico non è diventata centrale nella discussione teorica finché le idee di Bookchin non hanno cominciato ad acquisire crescente influenza a partire dagli anni Sessanta.
Reclus inizia il primo volume del suo magnum opus con l’epigrafe: «L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa». In questo concetto c’è tutto il messaggio di Reclus: l’umanità deve giungere a capire la sua identità d’auto-coscienza della Terra e deve così completare il processo storico di sviluppo di questa coscienza. In realtà, quel che egli propone è un progetto etico di presa di responsabilità, tramite una mutata pratica sociale, del nostro posto nella natura e un corrispettivo progetto teoretico di migliore comprensione di quel nostro ruolo e di smascheramento delle ideologie che lo occultano. Sulla base di questo approccio, egli cerca di spiegare lo sviluppo della società umana nella sua interazione dialettica con il resto del mondo naturale e sviluppa una teoria del progresso sociale in cui l’autorealizzazione umana può conciliarsi in un tutt’uno con il rigoglioso prosperare del pianeta.
Reclus ebbe sempre un forte senso dell’intrinsecità dell’umanità nella natura. Egli descrive eloquentemente la «natura umana» come espressione della creatività della Terra e della nostra parentela con tutte le forme di vita. «Noi siamo», dice, «i figli della ‘madre benefica’, come gli alberi della foresta e le canne del fiume. È da essa che noi deriviamo la nostra sostanza; essa ci nutre con il suo latte materno, dà aria ai nostri polmoni, ci dà tutto ciò grazie a cui viviamo, ci muoviamo, insomma esistiamo ». Attraverso tutti i suoi lavori egli rimane fedele a quest’approccio olistico, integrativo. Anche quando i suoi studi diventeranno sempre più tecnici e minuziosamente dettagliati, non abbandonerà mai questo suo precoce approccio nei confronti della natura un po’ romantico, poetico e finanche spirituale.
In effetti, la fusione di razionalità ed immaginazione, che sono state spesso viste come antagonistiche, è una delle dimensioni più singolarmente notevoli del pensiero di Reclus.
Conseguentemente, egli cerca di integrare una comprensione teorica e scientifica della natura con la consapevolezza delle implicazioni pratiche di tale comprensione. Il che è solo un altro modo di dire che egli costantemente si interroga sulla «politica della natura auto-cosciente». La sua geografia sociale è pertanto una geografia del tutto politica. Yves Lacoste, uno dei geografi francesi contemporanei che più si sono dati da fare per risvegliare l’interesse per Reclus, sostiene che quest’ultimo, pur essendo «il più grande geografo francese», è stato «completamente incompreso» a causa del «problema epistemologico centrale della geografia accademica: l’esclusione del politico».
Lacoste trova bizzarro che il recente dibattito sulla geografia sociale «dimentichi» sistematicamente la massiccia opera in sei volumi di Reclus, di cui la geografia sociale è il «filone principale ». Questa situazione ricorda in parallelo l’accoglienza fatta oggi all’ecologia sociale. Essa è benvenuta quando esprime l’edificante idea che la natura è una unità-nella-diversità, e talora viene perfino lodata per il fatto di proclamare che i problemi ecologici sono connessi ai problemi sociali, ma perde rapidamente credibilità per i più quando comincia ad analizzare la natura di quella connessione... ed osa addirittura trovare le radici della crisi nell’esistenza dello Stato centralizzato e dell’economia capitalistica.
Questi paralleli non dovrebbero stupire, perché le connessioni tra l’ecologia sociale e la geografia sociale di Reclus sono per molti versi impressionanti. Secondo l’analisi di Bookchin, uno dei principi interpretativi fondamentali dell’ecologia sociale è l’idea che ogni fenomeno sia, in una prospettiva dialettica, l’intera storia di quel fenomeno. Ebbene, Reclus utilizza questo principio come guida della sua geografia sociale quando osserva che «la società attuale contiene in sé tutte le società anteriori...». Egli applica questo principio anche alla natura umana, quando si dice d’accordo sul fatto che «l’ontologia ricapitola la filogenia». Nella sua versione di questa teoria, «l’uomo rammenta nella sua struttura tutto ciò cui i suoi antenati sono sopravvissuti attraverso lunghe fasi epocali. Egli in realtà riassume in sé tutto ciò che l’ha preceduto nell’esistenza, così come, nella sua vita embrionale, egli presenta successivamente varie forme di organizzazione più semplici di quella che gli è propria».
C’è dunque per Reclus una continuità evolutiva sia nei fenomeni naturali sia in quelli sociali, nella quale gli stadi precedenti si conservano in quelli successivi. Il che non implica tuttavia alcun genere di prospettiva strettamente deterministica. Piuttosto, la nostra conoscenza della continuità e dei fattori determinanti viene vista da Reclus come un contributo ad un’accresciuta libertà derivante da un’attenta conoscenza della natura delle cose. È interessante il fatto che Reclus non esita a riconoscere una certa continuità tra la «monarchia» nelle società umane e la «monarchia» in seno ad alcune specie animali, com’è il caso – ad esempio – di alcune scimmie che presentano individui dominanti o – come li definisce lui – «capi riconosciuti». Bookchin, al contrario, osserva che molti dei tratti delle gerarchie umane sono inesistenti in quelle comunità animali descritte come «gerarchiche». Non c’è motivo di credere che su questo punto Reclus dissentirebbe minimamente. E tuttavia egli non vede l’uso della terminologia relativa alla gerarchia sociale come una minaccia ai suoi principi anarchici ed ai suoi sogni per l’umanità. Dal suo punto di vista, quella terminologia semplicemente attira l’attenzione su una certa continuità tra i fenomeni, ma non implica che vi sia un qualche genere di gerarchia inscritto necessariamente nell’umanità. La gerarchia sociale è solo una delle possibili opzioni che può essere rifiutata se gli esseri umani decidono di organizzarsi in altri modi.
Benché Reclus creda che si possa imparare molto sui fenomeni presenti tramite lo studio di tutte le forme di vita, la sua precipua attenzione è rivolta a scoprire la natura dei fenomeni sociali tramite l’esame della loro evoluzione lungo la storia della società umana. Tale analisi, egli spera, può condurci a comprendere la struttura e le contraddizioni della società attuale.
Nella sua analisi delle società moderne Reclus scopre che ognuna di esse «si compone di classi sovrapposte, che rappresentano in questo secolo tutti i secoli precedenti con le loro corrispondenti culture intellettuali e morali», e che, quand’esse vengono «viste a contatto l’una con l’altra le situazioni estreme presentano uno scarto sorprendente». In questa sua ricerca sulle classi Reclus cerca di rivelare talune fratture nella struttura sociale normalmente nascoste dalle ideologie dominanti. Si può così mostrare come l’eredità nascosta del dominio sociale si rilevi nei conflitti sociali contemporanei.
Reclus ritiene che, per superare quel retaggio di dominio, l’umanità debba sviluppare una coscienza critica della sua evoluzione storica passata. Tale consapevolezza fornirebbe la base su cui creare coscientemente una storia futura. Egli concettualizza questo processo come il tentativo dell’umanità «di realizzare se stessa in una forma che abbraccia tutte le epoche».
Quando la specie umana giunge a vedersi come parte di un tutto storico e geografico, essa consegue insieme l’autocoscienza e la corrispondente libertà. Ci è consentito «liberarci dall’angusta linea di sviluppo determinata dall’ambiente in cui viviamo e dallo specifico retaggio della nostra razza. Di fronte a noi si disegna una rete infinita di percorsi paralleli, divergenti e intersecantesi che altri segmenti dell’umanità hanno seguito».
Se una volta la prospettiva ecologica si identificava con un’enfasi sull’armonia, sull’equilibrio e sull’ordine, il più recente dibattito di teoria ecologica ha messo in discussione quel modello dominante (vale a dire «eco-sistemico»). In realtà, diversi studiosi, influenzati dal pensiero post-moderno, hanno fatto proprio l’estremo opposto, vedendo in natura solo disordine e caos. Molto tempo fa Reclus sosteneva una posizione assai più saggiamente dialettica che evita gli opposti estremismi: quello statico e quello caotico. In ciò la sua prospettiva è del tutto coerente con quella dell’ecologia sociale. C’è veramente, secondo Reclus, armonia ed equilibrio in natura, ma esse operano in un contesto che presenta anche una tendenza al contrasto ed allo squilibrio. Egli osserva che «quando le piante o gli animali, compresi gli esseri umani, lasciano il loro habitat naturale e s’intromettono in un altro ambiente, l’armonia della natura ne viene temporaneamente disturbata»; tuttavia, questi nuovi elementi muoiono o s’adattano alle nuove condizioni, dando così un contributo alla natura in quanto vanno ad aggiungere un qualcosa di nuovo alla meravigliosa armonia della Terra e di tutto ciò che germoglia e cresce sulla sua superficie. L’equilibrio della natura è così un equilibrio insieme d’ordine e di disordine.
La concezione reclusiana di natura, fortemente olistica, suona molto simile all’analisi ecologica contemporanea. Un esempio è il suo approccio alla funzione della foresta nello stato generale di salute ecologica. Egli lamenta l’azione sconsideratamente distruttiva dei «pionieri» in Nord e in Sud America, i quali bruciavano enormi estensioni di foresta antica per fare spazio all’agricoltura, «e nel contempo bruciando animali, offuscando il cielo con il fumo e lanciando le ceneri al vento per centinaia di chilometri». Egli osserva che non solo questo modo di operare è miope da un punto di vista economico, ma che la vera grande perdita è che viene ad essere ridotto considerevolmente il ruolo che le foreste hanno «nell’igiene generale della Terra e delle specie viventi», un «ruolo essenziale». Reclus usa un immaginario fortemente organicistico nel presentare un modello positivo di buona salute eco-sistemica. Della Terra, dice, «si dovrebbe prendersi cura come d’un grande corpo, il cui ritmo di respiro è regolato dalle foreste, secondo un metodo scientifico; esso ha i suoi polmoni, che dovrebbero essere rispettati dagli esseri umani, poiché la loro stessa igiene dipende da essi». Egli ricorre spesso anche a immagini estetiche per esprimere la stessa visione organicistica della natura, come quando descrive la Terra come «ritmo e bellezza espressi in un’unità armoniosa».

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